Fermare Teheran snodo del terrore

Teheran finanzia le milizie della Regione grazie ai profitti di un paio di terminali nel Golfo Persico. E Israele avrebbe le capacità per distruggerli

Fermare Teheran snodo del terrore

Dalla metà degli anni Cinquanta fino alla fine degli anni Ottanta Israele dovette affrontare le grandi forze armate di Egitto, Siria e Irak, rifornite e addestrate dall'Unione Sovietica, che inviava con generosità migliaia di carri armati e centinaia di caccia a reazione, insieme a migliaia di addestratori (anche la Giordania era un nemico, ma i suoi fornitori americani e britannici furono molto meno generosi). Israele non ha ricevuto aiuti simili dagli Stati Uniti fino a dopo la guerra del 1967, quando Washington iniziò a inviare decine di eccellenti aerei da combattimento. Per il resto lo Stato ebraico ha dovuto arrangiarsi con tutto ciò che poteva acquistare di seconda mano o costruire da sé, tanto che le sue forze in ogni guerra sono sempre state in forte inferiorità numerica. E per spiegare come Israele ha sempre e comunque vinto sono state scritte biblioteche intere.

L'unica cosa inconcepibile durante il trentennale confronto con gli alleati arabi dell'Unione Sovietica era tagliare i loro rifornimenti alla fonte, attaccando la stessa Urss. Non era nemmeno la certezza di una massiccia rappresaglia a rendere impossibile il progetto, ma piuttosto l'assenza di obiettivi rilevanti che Israele potesse attaccare.

Oggi con l'Iran la situazione è completamente diversa. Tutte le milizie sciite allevate e dirette dall'Iran che attaccano quotidianamente il territorio israeliano con droni, razzi e missili armati, vale a dire Hezbollah, «l'esercito di Allah» in Libano e in Siria, ma anche il Kataib Hizbullah Asaib Ahl al-Haqq e l'Haraka Hizbullah al-Nujaba in Irak, così come gli Houthi dello Yemen, dipendono interamente dall'Iran per la fornitura di armi e per la maggior parte dei loro finanziamenti: le milizie irachene possono estorcere denaro dalle entrate petrolifere del Paese, ma lo Yemen è forse il Paese meno produttivo del mondo e i suoi Houthi sono finanziati da rimesse mensili in arrivo dall'Iran. Teheran paga anche gli stipendi degli Hezbollah perché le estorsioni di questi ultimi sulle entrate aeroportuali e doganali, con la discesa del Libano in uno stato di povertà, hanno perso progressivamente rilevanza.

I contrabbandieri sciiti di diamanti della Sierra Leone e i trafficanti in Colombia e a Ciudad del Este in Paraguay inviano denaro a Hezbollah, ma la maggior parte dei fondi che pagano gli stipendi di Hezbollah proviene direttamente dai proventi del petrolio iraniano, che finanziano anche i componenti missilistici cinesi e nordcoreani che l'Iran assembla sia in patria che nello Yemen per armare gli Houthi, nonché le importazioni di attrezzature nucleari.

I 91 milioni di abitanti dell'Iran coltivano pistacchi e altre colture esportabili, e nel Paese c'è pure un po' di industria manifatturiera (anche se i famosi tappeti non sono più richiesti come una volta), ma la maggior parte del denaro che va alle forze armate regolari, alle ricche Guardie Rivoluzionarie, e alle milizie sciite di Libano, Siria, Irak e Yemen deve provenire dalle entrate petrolifere dell'Iran, interamente controllate dallo Stato, perché i commercianti che esportano prodotti agricoli e artigianali non rimpatriano la valuta estera che guadagnano, e la usano invece per pagare le importazioni, e anche se le esportazioni industriali controllate dallo Stato sono molto celebrate dai media del regime, rimangono molto piccole.

In altre parole, il flusso di dollari che sostiene i nemici di Israele, dall'ormai decapitato Hezbollah libanese ai suoi equivalenti siriani e iracheni, fino agli Houthi che hanno efficacemente messo a nudo l'impotenza europea nel proteggere la migliore rotta commerciale dell'Europa da e verso il Golfo, l'Africa orientale e tutta l'Asia, proviene quasi interamente dalle esportazioni di petrolio imbarcate sulle navi cisterna del terminale iraniano per l'esportazione di petrolio di Khark Island, proprio al largo della costa iraniana.

Il 27 settembre, nel suo discorso all'Assemblea generale dell'Onu, Netanyahu ha avvertito i governanti iraniani che il «lungo braccio» di Israele può raggiungere anche loro, ma non è necessario che sia così lungo da raggiungere il molo di carico di Khark, nel Golfo Persico, che per altro si trova a solo 1.516 chilometri dalla principale base aerea di Israele, molto più vicino del terminale di importazione del petrolio degli Houthi a Hodeida, nello Yemen, che è stato interamente distrutto dai jet israeliani e che si trova a 2.081 chilometri dalla base già citata. L'Iran ha compiuto grandi sforzi per ridurre la sua dipendenza dal terminale dell'isola di Khark, nella parte superiore del Golfo Persico, non perché sia troppo vicino a Israele, ma perché era troppo vicino all'Irak, tanto da venire attaccato e bruciato durante la guerra Iran-Irak.

Il risultato di questi costosi sforzi è il terminale petrolifero di Jask, inaugurato di recente, che si trova molto più lontano da Israele, nell'Oceano Indiano, ben oltre il Golfo Persico. Per i pianificatori aerei israeliani, però, nemmeno questo è un problema, perché il petrolio arriva a Jask tramite oleodotti che possono essere intercettati in qualsiasi punto perfino più vicino di Khark.

Questa potente medicina ha rilevanti controindicazioni, a cominciare dalla «legge di Obama», che ha continuato a valere anche durante la presidenza di Biden, che proibisce qualsiasi attacco contro l'Iran da parte di americani o israeliani, anche se l'Iran ha continuato a uccidere soldati statunitensi in Irak e nello Yemen, mentre ha attaccato Israele in tutti i modi possibili: indirettamente con tutte le sue milizie e direttamente con missili balistici, ma anche con droni e alcuni missili da crociera e droni armati. Attacchi per lo più inefficaci, ovviamente, a causa delle difese aeree e missilistiche davvero uniche di Israele, ma comunque attacchi diretti.

La «legge di Obama» è nata da una grande paura dell'ex presidente: quella di essere manipolato e ingannato per essere spinto ad entrare in guerra contro l'Iran, come il suo predecessore Bush era stato convinto a fare con l'Irak, per trasformare il Paese in una democrazia rimuovendo semplicemente il feroce dittatore Saddam Hussein. Da parte di Obama la ricerca a oltranza di una riconciliazione storica con l'Iran ha ignorato il semplice fatto che i fanatici governanti iraniani non potrebbero mai riconciliarsi con l'Occidente, mentre continuano a reprimere con la forza l'opposizione filo-occidentale che detesta con tutte le forze il loro governo corrotto e inefficace. Proprio come i Bush hanno ignorato le forze antidemocratiche che dominavano la politica dei vari gruppi etnici iracheni, rendendo impossibile qualsiasi tipo di democrazia, gli Obama, tornati a dominare l'amministrazione Biden dopo l'intervallo di Trump, hanno ignorato l'ostilità ininterrotta dell'Iran per perseguire maniacalmente un altro tentativo di riconciliazione, anche se l'Iran continua a organizzare attacchi letali e su vasta scala contro le forze statunitensi e gli alleati degli Stati Uniti, dall'Arabia Saudita a Israele.

In caso di vittoria di Kamala Harris, gli uomini di Obama continueranno a occupare la Casa Bianca, lasciando una stretta finestra temporale per un'azione israeliana contro l'Iran. Per lo Stato ebraico attaccare un vasto Paese di 91 milioni di persone sarebbe un atto sconsiderato in qualsiasi circostanza e per qualsiasi motivo, ma un attacco ai proventi del petrolio, i cui benefici sono negati al popolo iraniano che soffre da tempo un regime oppressivo amaramente osteggiato dalla maggior parte dei cittadini, come dimostra l'astensione di massa alle recenti elezioni, è tutt'altra cosa. In Iran l'iperinflazione ha portato la popolazione urbana del Paese alla vera e propria fame, per la prima volta dalla caduta dello Scià nel 1979. Un attacco ai proventi del petrolio, che il regime utilizza principalmente per mantenersi al potere e per condurre le sue guerre, potrebbe addirittura innescare la caduta del regime.

Per giustificare l'uso del «braccio lungo» di Israele, come lo ha definito Netanyahu all'Onu l'altro giorno, ci sono troppe variabili destinate a influenzare il percorso tra l'azione israeliana e il suo successo. Ma un attacco sarebbe un bonus molto gradito dalla maggior parte della popolazione iraniana e dai milioni di iraniani della diaspora.

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