Quant'è potente il sindacato, se la principale notizia sullo sciopero del pubblico impiego è che non fa notizia? Nei media non ce n'è traccia ma, sotto la coltre di silenzio stesa dalle redazioni, sporadici articoli indicano che tutti sono critici verso questo gesto. Allora capisci che i mass media stanno proteggendo il sindacato. Da se stesso, dalla fesseria cosmica di aver chiamato uno sciopero mentre ci avviciniamo al Natale più triste, povero e privo di calore a memoria d'uomo. Rischia di essere un boomerang, per ovvie ragioni.
Uno. Siamo nel mezzo di una crisi epocale, in cui milioni sono senza reddito o molto decurtato, oppure rischiano di perderlo quando il blocco dei licenziamenti cesserà. I dipendenti pubblici hanno ricevuto sempre lo stipendio e avranno anche la tredicesima. Due. I fortunati che hanno ancora tenuto il lavoro spesso sono costretti a svolgerlo con rischi di contagio e con più costi e sacrifici per recarvisi, mentre i dipendenti pubblici sono comodamente a casa a far finta, nella migliore delle ipotesi, di lavorare davanti al pc. Tre. La data del 9 che di fatto allunga un bel ponte di quattro giorni è lo sberleffo finale, la volgare cafonaggine che solo il senso di impunità può suggerire.
Però separiamo il pubblico impiego dai pubblici dipendenti. Attaccare ferocemente il primo non equivale a denigrare i secondi. Se un ufficio pubblico produce poco, etichettare il dipendente come incapace o sfaticato è sbagliato e offusca il vero problema. Tutti i lavoratori, nel pubblico come nel privato, sono persone mediamente capaci e disponibili. Poi il privato, con bastone e carota, ottiene una produttività che ripaga entrambi economicamente ed è essa stessa motivazione a fare meglio. Atteggiamenti virtuosi e produttivi non sono rari anche nel pubblico, e non solo negli ospedali, solo che i lavoratori vengono chiamati eroi perché devono trovare la motivazione esclusivamente in se stessi. Spesso contro il sistema stesso, che non contempla alcun bastone e le carote le distribuisce a tutti, senza alcun riguardo per il merito. No, i bravi dipendenti pubblici sono parte lesa.
Un impianto di stampo feudale, dov'è la vicinanza e il favore del potente, piccolo o grande, a decidere le sorti del dipendente. Le ferie migliori, un trasferimento o un commissariato alla sanità, tutto viene per fedeltà e interessi personali, mai per meriti. Anche quando necessaria e apprezzata, la competenza serve il funzionamento del sistema, che vuole e misura questo e non l'output erogato ai cittadini e al Paese. L'interesse pubblico neanche compare sui radar. Il privato invece si misura col mercato.
Essere il regno della non meritocrazia fa del pubblico impiego il brodo di coltura ideale del sindacato, che si regge proprio sull'uniformità di performance. Il lavoratore che voglia eccellere e meritare di più è fumo negli occhi per il sindacato, così come lo è per la Chiesa il fedele che voglia essere migliore degli altri. Sulla produttività e sulla dignità del lavoro il sindacato è stato espulso dal settore privato già a Mirafiori nel 1980 e poi a Pomigliano 30 anni dopo. Ora tenta di rientrare quando scoppia una crisi insolubile, fornendo bandiere e magliette e avviando la pantomima dei tavoli ministeriali. Ma in Italia il privato che produce non ha potere e dunque non può darne.
Conta l'impianto pubblico, ultimo baluardo vetero-comunista del lavoro come variabile indipendente dalle vicende economiche e produttive. Da qui il sindacato trae il potere vero, che non deve neanche chiedere di essere tenuto in ombra quando si capisce che ha fatto un passo falso, che nuocerebbe alla sua immagine presso la pubblica opinione.
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