Non bisogna essere né «meloniani» né simpatizzanti di Fratelli d'Italia per riconoscere che la nomina di Raffaele Fitto a Vicepresidente dell'Unione sia stato un capolavoro di tattica politica. Sono passati meno di sei mesi da quando, in sede di Consiglio Europeo, Giorgia Meloni si astenne sul pacchetto di nomine per i vertici dell'UE. Poi, addirittura, schierò il suo gruppo contro la conferma della von der Layen alla guida della Commissione. Sembrò il ritiro sull'Aventino; la scelta dell'isolamento, se non dell'estraneità. Si trattò, in effetti, di decisione avventata. Anche se, allora, l'esigenza dei sostenitori di Ursula di aver meno difficoltà possibili con socialisti e verdi (il passo indietro della Meloni, in tal senso, agevolò non poco l'accordo), attutì la portata dello «strappo». L'attribuzione della Vicepresidenza a Fitto lo sana, consentendo di riprendere assieme il cammino due curve più a monte. Non solo: assume un'importanza politica speciale per i modi e i tempi nei quali tale riconoscimento avviene.
L'Europa, con la vittoria di Trump, è di fronte a una grande incognita. Nessuno può affermare con certezza quale sarà, da qui a qualche mese, lo stato dei rapporti transatlantici. Difficile andare oltre le impressioni nel prevedere l'effettiva influenza che il nuovo presidente eserciterà nell'ambito dei rapporti strategici e di quelli commerciali. Impregiudicate restano anche le sorti dei conflitti russo-ucraino e mediorientale. Tutto ciò, mentre le nazioni che hanno dato vita all'asse franco-tedesco, cardine dell'Unione, sono entrambe in crisi, sia politica che economica. È in questo contesto che si è palesata l'esigenza dei socialisti europei di sbarrare la strada all'Italia e a Fitto, richiamando Ursula a una malintesa coerenza. Se fosse prevalsa, quella famiglia politica, nei fatti, avrebbe abdicato ad una antica pretesa egemonica in campo europeista scegliendo, in un momento cruciale, di indebolire ciò che è già di per sé sin troppo debole. Gli appelli di Mattarella, Prodi e Monti a favore di una soluzione ragionevole hanno, in tal senso, un chiaro significato. Essi hanno parlato non solo da italiani, ma anche da europeisti convinti: più convinti di quanto lo siamo noi.
Il raggiunto accordo, dunque, giunge a sancire la necessità, nell'ora presente, di un'Europa inclusiva che non inclini a integralismi ideologici e nemmeno programmatici. L'integrazione europea, d'altro canto, si è conseguita più spesso attraverso il verificarsi di conseguenze non desiderate che per l'inverarsi di programmi definiti. L'accordo riconosce anche, implicitamente, la centralità che Giorgia Meloni potrebbe avere nelle vicende del futuro prossimo venturo. Perché, oggettivamente, si trova a governare il Paese più stabile tra quelli grandi e fondatori. Ma ancor di più perché, nel confronto con l'alleato atlantico, vi sarà bisogno di un'Europa più ampia possibile. E lei può divenire punto di giunzione tra diverse esigenze, di natura sia ideale che territoriale.
La sfida è di quelle storiche. Tutto starà nel saperla ben interpretare. A questo proposito, abbiamo letto della riapertura di un dibattito interno sulla cancellazione della Fiamma che ancora arde nel simbolo di Fratelli d'Italia. I simboli debbono avere l'importanza che meritano: non poca, senza esser scambiati per feticci. Se, però, veramente si intende compiere il passo, è questo il momento giusto.
La Fiamma, comunque la si voglia mettere, rappresenta storia passata. C'è oggi, per davvero, una storia nuova da scrivere ed è qui che va trasferita l'identità possibile. Per riuscirci, servono tante cose, ma quel simbolo certamente non aiuta.
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