La scomparsa di Silvio Berlusconi si è portata dietro una lunga scia di rivelazioni. Una delle principali ha riguardato la notizia dell'avviso di garanzia al Cavaliere nel 1994 pubblicata sulla prima pagina del Corriere della Sera proprio il giorno in cui a Napoli si svolgeva un convegno internazionale sulla criminalità: fu la notizia che innescò la fine del suo primo governo anche se poi, anni dopo, quella vicenda finì nel nulla sul piano giudiziario. Ebbene, molti dei protagonisti hanno ammesso che l'avviso di garanzia arrivò al quotidiano direttamente dagli uffici della procura milanese. E ancora oggi, trent'anni dopo, il direttore di allora, Paolo Mieli, osserva che nessuno gli ha mai chiesto nulla di quella storia.
Ma come si sa, la storia, purtroppo, è incline a ripetersi. Così, senza entrare nel merito del caso che ha coinvolto Daniela Santanchè, fa impressione constatare che sulla stampa è stata resa nota l'iscrizione sul registro degli indagati del ministro, un provvedimento addirittura secretato di cui l'interessata era del tutto all'oscuro. Un atto di cui potevano essere a conoscenza solo il procuratore e i pm che hanno portato avanti l'indagine. A quanto pare, quindi, la Procura di Milano perde il pelo ma non il vizio e se ne infischia della riforma Cartabia. Lo si sapeva già, visto che uno dei totem del celeberrimo rito ambrosiano, Piercamillo Davigo, ormai in pensione, si è beccato una condanna di un anno e tre mesi in primo grado per rivelazione del segreto d'ufficio. Solo che nel caso della Santanchè il fine torna ad essere quello di trent'anni fa: mettere in difficoltà il governo di Giorgia Meloni, cuocendo a fuoco lento uno dei suoi ministri.
Ripeto: senza entrare nel merito della vicenda, immaginare che nel 2023 si usino le stesse tecniche di allora, cioè si metta in moto il solito circo mediatico-giudiziario, la solita gogna, per colpire l'avversario politico, lascia sbalorditi. Anche perché, oggi come allora, la politica la fanno alcune procure usando i giornali amici come buca delle lettere. E, oggi come allora, il protagonismo giudiziario aumenta di intensità quando all'orizzonte c'è una qualsiasi riforma che riguardi la magistratura.
Per cui ti accorgi che o le riforme sono profonde, serie e tempestive, o il desiderio di conservazione della cosiddetta «casta» rischia di avere il sopravvento. È successo tante volte in passato e a diversi governi. Solo che rispetto al tempo che fu - ed è il limite di chi usa le vecchie tecniche - al circo mediatico-giudiziario manca per imporsi il favore dell'opinione pubblica. Un ingrediente fondamentale. Anzi, esagerazione dopo esagerazione, scandalo dopo scandalo (a cominciare dall'«affaire Palamara»), sia le toghe politicizzate sia i loro alleati mediatici hanno perso seguito. Inoltre, ci sono pezzi importanti di magistratura che sono stanchi della reiterazione del vecchio stile, che non si ritrovano e anzi stigmatizzano questi comportamenti. Basta leggere la motivazione della condanna a Davigo che addirittura parla dello «smarrimento di una postura istituzionale».
Appunto, magari mi sbaglio, ma ho l'impressione che «i gobbi» in toga siano diventati una
minoranza. C'è da vedere ora se per sapere qualcosa sulla pubblicazione dell'iscrizione sul registro degli indagati della Santanchè (per di più secretata), dovranno trascorrere altri trent'anni come nel caso di Berlusconi.
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