U na vittoria per l'Italia la sentenza internazionale che strappa definitivamente dalle grinfie indiane i nostri marò, Salvatore Girone e Massimiliano Latorre. E permetteteci di rivendicare, che una piccolissima parte di questa vittoria è pure del Giornale e dei suoi lettori. Fin dall'inizio, con il fiocco giallo sulla testata, abbiamo condotto una battaglia, talvolta solitaria nel panorama mediatico, in difesa dei fucilieri di Marina. Soprattutto sul diritto sacrosanto, adesso sancito dal tribunale arbitrale, alla giurisdizione italiana del caso e sull'immunità in quanto militari in servizio anti pirateria.
Però è una vittoria che lascia dell'amaro in bocca. Dopo otto lunghissimi anni arriva tardi e apre un nuovo capitolo dell'odissea giudiziaria dei marò. In pratica si torna alla casella di partenza, come nel gioco dell'oca. Adesso Girone e Latorre dovranno essere processati in Italia. E con la magistratura che ci ritroviamo non c'è da stare molto tranquilli. La procura di Roma e quella militare hanno aperto dei procedimenti fin dal 2012 e la decisione della corte arbitrale impone di giudicarli in Italia. L'ipotesi di accusa formulata dalla magistratura civile è di omicidio volontario e non può che far tremare i polsi. Girone e Latorre si sono sempre professati innocenti. In tribunale dovrebbero venire finalmente alla luce i tanti dubbi e buchi neri di questa storia, come il vero calibro dei proiettili che hanno ucciso i pescatori indiani, le rotte e i tempi da verificare del peschereccio coinvolto nella vicenda oppure la possibilità di uno «spiattellamento», in pratica il rimbalzo dei colpi sul mare liscio come l'olio. Tutte ipotesi da provare o confutare, ma suona stonata, anche se frutto di un ovvio compromesso, la decisione della corte arbitrale di obbligare l'Italia a compensare i familiari delle vittime e il comandante del peschereccio, che è un furbone pronto a fare soldi sul caso fin dal 2012. Ai marò non va giù, perché risarcire significa in qualche maniera ammettere la colpa di avere sparato per uccidere, che loro da sempre giurano di non portare sulle spalle.
E poi è rivoltante assistere a quanto sia facile salire sul carro dei vincitori dimenticando le pesanti responsabilità di vari governi. L'aspetto più ridicolo è l'osanna dei grillini al ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, che ha assunto la carica nell'autunno dello scorso anno. Anche se voleva non avrebbe potuto fare nulla perché la corte arbitrale aveva giù chiuso le udienze e si attendeva, da tempo, la sentenza. Per di più Di Maio non era neppure in Parlamento quando i marò finirono in galera in India. La decisione di imboccare la via arbitrale a livello internazionale era stata fortemente consigliata da esperti del diritto internazionale e del mare, che per anni sono rimasti inascoltati. L'unico esponente governativo ad avere dimostrato di avere la spina dorsale e un senso della Patria è stato l'allora ministro degli Esteri, Giulio Terzi, che si dimise quando il governo Monti con un atto infame calò le braghe rimandando i marò in India. Solo nel 2015, sotto l'esecutivo Renzi, si imboccò con decisione la via dell'arbitrato, che ha portato a una vittoria con l'amaro in bocca cinque anni dopo.
Tutti esultano, ma l'odissea dei marò non è finita.
Anzi inizia una nuova fase giudiziaria in Italia, che dopo otto anni dovremmo avere la decenza di concludere in fretta. Oggi come ieri saremo sempre al fianco dei marò nella speranza che venga fatta finalmente giustizia e riconosciuta, o meno, la loro innocenza.
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