Niente getta luce sulla cosiddetta «egemonia culturale della sinistra» quanto i resoconti dei viaggi effettuati nei Paesi del socialismo reale dagli intellettuali progressisti. Vengono a galla le ambiguità, l'arte sopraffina di svicolare, la capacità di arrampicarsi sugli specchi pur di non vedere «la lettera rubata», il problema macroscopico sotto gli occhi di tutti. Lo dimostrano due ritorni in libreria: Alberto Moravia, La rivoluzione culturale in Cina (Bompiani, pagg. 198, euro 10; a cura di Luca Clerici), apparso nel 1967 e corredato da 11 orribili fotografie scattate da Dacia Maraini, allora probabilmente convinta che solo la bruttezza avrebbe salvato il mondo; e Giorgio Manganelli, Cina ed altri orienti (Adelphi, pagg. 346, euro 22; a cura di Salvatore Silvano Nigro), un'edizione grande il doppio rispetto alla precedente del 1974 e comprensiva, oltre che di Cina, Filippine e Malesia, anche di pagine straordinarie sul Medio Oriente.
La genesi dei due volumi è diversa. Moravia, che già era stato in Cina nel 1937 saltando su un battello cromato pieno di fissati per i night-club di Shangai, torna a viaggiarvi assieme alla Maraini nel 1967, come inviato del Corriere della sera. Da qualche mese impazza la famigerata «Rivoluzione culturale» di Mao e la missione è quasi impossibile: riuscire a scrivere della Cina senza pestare i calli filocinesi dei suoi amici maoisti (a cominciare da Godard) né quelli, borghesi, dei lettori del Corriere. Quanto a Manganelli, apparentemente giunge in Cina nel 1974, corpo estraneo in un aeroplano di cumenda; in realtà è caduto nella trappola tesa dal suo psicanalista, Bernhard, il quale aveva pregato il celebre archeologo e indianista Giuseppe Tucci, direttore dell'Istituto Italiano per il Medio ed Estremo Oriente, di fare in modo che Manganelli viaggiasse, ritenendolo l'unico sistema per guarirlo dalla nevrosi.
Una volta atterrati, né Moravia, né Manganelli possono scrivere che la Cina comunista è uno stato totalitario in cui l'uguaglianza, la medicina politica più difficile da dosare, viene iniettata in dosi massicce nella società finché essa non si dissolve. Come girare intorno a questa ingombrante verità? Come far accettare che 700 milioni di cinesi salmodianti vivano alla stessa maniera, che l'onnipresente immagine di Mao faccia impallidire il più sinistro dei Grandi Fratelli, che l'uguaglianza oltrepassi la barriera delle mutande (uomini e donne vestono allo stesso modo, la società cinese è forzosamente asessuata: «Mai, durante il mio viaggio, ho visto una coppia tenersi per mano», osserverà Manganelli)? Semplice: evocando il sogno chic e tedioso di un'esistenza ridotta all'osso. Sorto con il Cinismo (Diogene cercava «l'uomo naturale», privo delle deformazioni prodotte dalla cultura), tornato a furoreggiare durante il Medioevo pauperistico, rispuntato in Età moderna fra le esotiche piume del buon selvaggio e infine dilagante nelle pieghe dell'ideologia ecologica o anticonsumista, il mito di un essere che rigetta il superfluo viene ripreso da Moravia e applicato al modello cinese. «L'uomo nasce sfornito di tutto. Ora, il necessario per diventare uomo sta nei limiti della povertà. Al di là di questo limite comincia la ricchezza, cioè la superfluità; una condizione anormale, perciò disumana». Ecco, il gioco è fatto: il Grande Timoniere non è più un tiranno, ma un moralizzatore che costringe l'uomo a essere se stesso. Se per Madame de Staël Napoleone era un Robespierre a cavallo, per Moravia Mao è un Diogene uscito dalla botte ed entrato con lo scettro nella stanza dei bottoni.
Peccato che a questa tesi Moravia non creda fino in fondo convinto com'è, da bravo borghese, che la civiltà non sia basata sul bisogno, ma sul lusso e lo sperpero. È questa la scandalosa verità che fa orrore ai moralisti di ogni tempo e che Moravia ha il coraggio di adombrare nell'ultimo capitolo, dove Mao diventa il «convitato di pietra», pronto a trascinare all'inferno l'autore degli Indifferenti colpevole di aver cenato a base di raffinatissima anatra; un Moravia-Don Giovanni che non vuole pentirsi di nulla, e men che meno dei suoi «vizi» borghesi. Finalmente, la Rivoluzione culturale si rivela per ciò che è: una rivoluzione anticulturale, cioè oscurantista.
Anche Manganelli subisce il fascino perverso dell'omogeneità: «Io non so mai con chi parlo, forse è un ministro, forse un cameriere». Con ragionamento capzioso, le uniche uniformi sarebbero quelle occidentali: «Da noi, quello si veste da avvocato, quello è un professore». E naturalmente gli «assistenti», cioè le Guardie rosse che impediscono ai visitatori di uscire dal gruppo, non li sorvegliano: li custodiscono. Ma poi, pagato un tributo allo Spirito del tempo, ci si può dedicare alla Cina immemoriale dei draghi araldici, delle concubine suicidate, degli ideogrammi incomprensibili e terrificanti. Per l'autore di Hilarotragoedia la Cina non è il regno della naturalezza, come per Moravia: è il regno dell'artificio. Nel Palazzo d'Estate «solo l'acqua del lago era vera». La Grande Muraglia? «Niente di più lontano dalla Maginot». Per tacere delle pagine sulla cucina cinese, che satireggiano la doppiezza e le rodomontate del regime: «Tortelli fritti si rivelano involtini di carne, sembra cioccolata ed è soia, ci sono pesci molli e di scura tinta che simulano il maiale».
Un pasto di cento portate in cui compaiono «sinuose e viscide oloturie», cibi composti di «secrezioni animali» e l'anitra laccata alla pechinese - «prevede una cottura dall'interno dell'animale che rasenta il vilipendio di cadavere». Il pasto si chiude con una «capigliatura d'alghe»: antifrasi derisoria, chissà quanto ricercata, di Mao, ennesimo dittatore dalla fronte calva.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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