Qualche anno è passato. Eravamo a Milano, io ero assessore alla cultura, la incontrai a una festa o a un ballo, a Palazzo reale. Clelia era con un'amica intraprendente: Elisabetta Marelli. Mi sembrò naturale sfidarle, e proposi a Clelia di partire per l'Afghanistan, una spedizione che avevo in programma dopo pochi giorni.
Poi non partimmo, e io iniziai un lungo viaggio con Elisabetta, di cui resta un documento straordinario: il film “Sgarbistan”, più di tre mesi di girato che divennero poi un racconto del mio modo di vivere. E, mentre Elisabetta ha fatto con me tanta strada, Clelia si è tenuta in disparte; o, meglio, è apparsa in modo episodico, discontinuo.
Mi sono così reso conto ora che aveva un suo progetto ambizioso: diventare me. Con una certa furbizia, con particolari accorgimenti. Clelia non voleva accompagnarmi, ma sostituirmi. Un obiettivo che si manifesta chiaramente: "vivere en artiste", fare della propria vita un'opera d’arte. Una cosa molto diversa dall’attività critica o dal compiacimento della conoscenza. Obiettivo irrealizzabile. Eppure, nella sua vita assolutamente indipendente dalla mia, ci è riuscita. Lo dichiara con impudicizia: "Un giorno ho sentito Sgarbi polemizzare contro un decreto legge che impone un giro di vite sul gioco d'azzardo. Con una provocazione delle sue, invitava non solo a non vietare nulla, ma anzi a mettere le slot-machine dentro i musei. "Arrivi tardi Vittorione", mi è venuto da pensare, "io è da anni che ho messo i musei dentro le slot-machine'".
Insomma Clelia ha pensato bene di fare il critico d'arte. La mia misura era un po' ingombrante, per lei, e tendeva a travalicare l'artista e l'opera con la mia persona e con la mia azione. L'artista rischiava così di sentirsi annichilito. Il metodo critico di Clelia è altrettanto invasivo, ma non è la applicazione di dottrina o intelligenza, capaci di ridimensionare l'opera d’arte, o presunta tale, in un confronto mortale; è il procedere a una mimesi anche approssimativa attraverso il selfie,con un lontano richiamo all'esperienza di Luigi Ontani, le cui opere consistono nelle fotografie dei dipinti che ha animato e interpretato.
Lei lo spiega chiaramente: "I miei selfie con le opere d'arte, che ho chiamato 'Selfie ad Arte', possono sembrare il risultato di un atto spontaneo, fulmineo, un gesto che mima una forma, gioca con l'immagine e i suoi rimandi, scherza sulla compresenza di oggetti inanimati e di una performer che dovrebbe in un determinato spazio uniformarsi all'atteggiamento di tutti e limitarsi a guardare, e invece instaura un rapporto diverso con le opere, ludico e allusivo, usando il registro comico e quello grottesco; in qualche modo però quell'atto e quel gesto sono il risultato di una condensazione consapevole, che passa attraverso tutte le esperienze che ho fatto: moda, pubblicità, Tv show, radio".
In tal modo interpreta l'opera d'arte, e si sostituisce a lei, con un procedimento che richiama "Las meninas" di Velasquez,dove la realtà è sempre altrove.
I suoi selfie contribuiscono a far capire, o a far capire meglio? Possiamo immaginare di sì, lei lo sa: "Davanti all'obbiettivo, io sono contemporaneamente: quello che credo di essere, quello che vorrei si creda che io sia, quello che il fotografo crede che io sia, e quello di cui egli si serve per far sfoggio della propria arte". E il libro dove racconta questo è divertente e spiritoso. E tutto per non essere venuta in Afghanistan.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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