Italiani, "anime morte" a disposizione dei furbi

Dall'archivio del Gabinetto Viesseux salta fuori un romanzo di Stefano D'Arrigo ispirato a Gogol' e pronto a diventare un film di Luchino Visconti. È una tragicomica avventura siciliana. In attesa di Garibaldi

Italiani, "anime morte" a disposizione dei furbi

Stefano D'Arrigo fa il suo esordio come poeta nel 1957 con Codice siciliano, poi silenzio o quasi fino al 1960 quando esce I giorni della fera, lo stralcio di un romanzo, sulla rivista Menabò, poi ancora silenzio fino al 1975 quando lo stralcio diventa il capolavoro Horcynus Orca, altri dieci anni e arriva il romanzo Cima delle nobildonne. Bibliografia principale finita ma sufficiente per accogliere il siciliano D'Arrigo (Alì Terme, Messina, 1919- Roma 1992) nel pantheon della letteratura italiana.

Il deposito delle carte d'autore al fiorentino Gabinetto Vieusseux ha regalato una rinnovata conoscenza di questo autore solitario ma non isolato. Attraverso i carteggi, lo vediamo inserito nel mondo romano della scrittura e del cinema, giusto per fare qualche nome: Cesare Zavattini, Tonino Guerra, Ennio Flaiano e Pier Paolo Pasolini, per il quale reciterà in Accattone nella parte del giudice. Emerge anche una ampia produzione di articoli e brevi saggi di stampo giornalistico. Ma soprattutto sono saltate fuori le infinite revisioni di Horcynus Orca, progetto ideato addirittura nel 1957. Nel 2001, ne uscì una redazione intermedia, coerente e cristallizzata, con il titolo I fatti della fera (Rizzoli).

Horcynus Orca fu un discreto bestseller grazie all'astuta ma sensata creazione del «caso» letterario orchestrata da Mondadori: cari lettori, ecco il grande (in tutti i sensi, 1264 pagine) libro d'avanguardia che l'Italia non ha mai avuto.

Prima del successo, D'Arrigo aveva il prosaico problema di mettere insieme il pranzo con la cena. Come molti scrittori, cercò di entrare nel giro degli sceneggiatori. È probabilmente connesso a questa esperienza la riscrittura-adattamento-reinvenzione di Anime morte, il romanzo del 1842 di Nikolaj Vasil'evic Gogol' saltato fuori dall'archivio del Vieusseux. Lo pubblica Rizzoli, con il titolo Il compratore di anime morte, a cura di Siriana Sgavicchia (pagg. 280, euro 20). L'eccellente edizione soddisfa ogni curiosità filologica e storica. In breve, un figlio di nessuno, desideroso di avere una famiglia, inizia la sua scalata sociale nel regno borbonico. Ottenuto un titolo nobiliare e una dritta preziosa, viaggia per la Sicilia comprando, dalla nobiltà in decomposizione culturale ed economica, le anime morte: ovvero i contadini deceduti dopo l'ultimo censimento. Non tutti sanno che possono essere un piccolo tesoro, per via di certi leggi. Il Principe, scambiato per un alto dignitario della Corte di Napoli, si introduce in ogni ambiente. L'aristocrazia è un insieme di fanfaroni squattrinati, controllati a vista dai creditori. Le dame sono vacue, pettegole e vendicative. Il Principe fa affari e si vede ormai a un passo dal trionfo sociale. Nel frattempo, i giacobini scatenano piccole rivolte contro le tasse, e un certo Giuseppe Garibaldi si appresta a sbarcare in Sicilia con un manipolo di mille soldati. Tra le «anime morte», ce ne sono di vive e vegete: gente fuggita dal feudo in cerca di fortuna o di qualcosa da mangiare. Dopo aver fallito, torna dai padroni. Il Principe incontra così la contadina Rosalia: ed è l'amore che piegherà il cinismo del compratore di anime.

Non c'è traccia dello sperimentalismo di Horcynus Orca e la trama punta principalmente sula commedia e sulla satira: inevitabile, come il lieto fine, essendo un prodotto destinato al cinema, molto probabilmente al regista Luchino Visconti. Tuttavia le carte che accompagnano il libro ci dicono alcune cose: anche Il compratore di anime è un progetto cullato a lungo, il che forse spiega come mai alcune scene sono perfettamente romanzate e altre hanno il passo rapido del trattamento cinematografico. Il bellissimo saggio della curatrice mostra come l'interesse di D'Arrigo fosse profondo e accompagnato da letture di grande respiro (Settembrini soprattutto). L'ultima scena, inoltre, riecheggia in un quadro di Renato Guttuso dedicato all'amico D'Arrigo. Non vi possiamo dire quale, perché sarebbe come rivelare l'imprevedibile sorte del Principe. Lo scrittore inoltre intendeva istituire un paragone implicito tra la Sicilia borbonica e la Sicilia fascista, la nobiltà corrotta e i podestà corrotti, il popolo pronto a seguire l'uomo forte di turno, la burocrazia ridicola se non fosse opprimente.

Fin qui i documenti. La lettura diretta suggerisce di andare anche oltre: c'è sempre una Sicilia borbonica, nascosta dietro a qualsiasi regime, una Sicilia pronta a saltare sempre fuori.

Ma perché limitarsi alla Sicilia, c'è sempre un'Italia borbonica pronta a saltare fuori, magari è proprio quella Italia nella quale noi stessi viviamo, rappresentati (si fa per dire) da politici per i quali il Parlamento è il trampolino di lancio per Il grande fratello, massacrati da imposte palesi e occulte, presi per i fondelli da una burocrazia che sfrutta il digitale per celarsi meglio, disposti a cedere al demagogo di turno, incantati dalla ricchezza (altrui) specie se ostentata con grossolana volgarità.

Tutto sommato, forse siamo noi le anime morte ma in vendita.

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