La luce di Bob Wilson (ri)scolpisce la "Pietà"

Suggestiva messa in scena sulle note dello Stabat Mater per l’opera di Michelangelo

La luce di Bob Wilson (ri)scolpisce la "Pietà"
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Michelangelo Buonarroti sosteneva che ogni artista, attraverso il proprio furor creativo, può illuminare la materia di luce divina. Deve averci riflettuto a lungo lo statunitense Robert «Bob» Wilson - artista universale e trasversale tra teatro, arte e design, maestro contemporaneo assoluto della luce - di fronte alla sfida con l'opera michelangiolesca che più di tutte rispecchia il «non finito» come incarnazione dello spirituale, pessimistico dissidio tra anima e materia. Del resto il mito e la dialettica tra antico e moderno si addicono a Wilson, e il suo progetto «Mother» realizzato per la Pietà Rondanini al Castello Sforzesco come una sorta di benedizione alla settimana milanese del design, rappresenta l'ultima tappa di un lungo percorso artistico che lo ha visto confrontarsi brillantemente ora con Shakespeare, ora con il Faust di Goethe e ora con l'Odissea di Omero.

La luce, per colui che è stato definito dalla critica internazionale l'artista «più visionario del mondo», è tutto: materia e anche spirito. «È ciò che dà forma e colore allo spazio dice Per me è sempre il punto di partenza perché senza luce, lo spazio non esiste». La Pietà Rondanini, ultima opera del genio rinascimentale, è stata forse una delle sfide più emozionanti proprio per il suo essere capolavoro «work in progress», trasfigurato dal dialogo tra luce, ombra e suono ricreato da Wilson con la collaborazione del compositore estone Arvo Pärt, che per l'installazione ha scritto la versione vocale e strumentale della preghiera medioevale «Stabat Mater». Il risultato è quello di una messa in scena che sposta l'opera in una dimensione a-temporale e ancor più mistica, collocata in uno spazio fisico e mentale che dà alla Pietà un'aura fortemente contemporanea. «Quando ho visto per la prima volta la scultura di Michelangelo dice Wilson - sono rimasto seduto di fronte all'opera per più di un'ora. Poi mi sono alzato e ho iniziato a camminarle intorno. Ho percepito un'energia potente, una presenza quasi mistica. Forse è proprio il fatto di essere incompiuta che la rende così straordinaria. È come una finestra aperta, uno spazio sospeso tra il visibile e l'invisibile. Mi ha regalato un tempo diverso, uno spazio nuovo in cui pensare, sognare».

Attraverso la luce proveniente da una finestrella virtuale che «scolpisce» lo spazio di vibrazioni inedite, «Mother» sembra rinnovare il pensiero stesso del Buonarroti secondo cui scopo dello scultore non è «creare» ma «liberare» la figura che è imprigionata all'interno del blocco di marmo. Prima di Wilson, l'ultima Pietà aveva folgorato sulla via di Milano un altro grande artista anglosassone, lo scultore britannico Henry Moore che la definì «la scultura in assoluto più commovente che sia mai stata creata da un artista, in cui si avverte una più profonda comprensione dell'umanità, per me unico vero metro di giudizio di un'opera d'arte».

Per il geniale regista americano Leone d'oro alla Biennale di Venezia del 1993 proprio per un'installazione scultorea, l'opera realizzata nell'anno di Euroluce rappresenta un invito alla meditazione, una sorta di «opera totale» che invita a riflettere sul messaggio intimo di un capolavoro riconosciuto, insieme all'Ultima Cena di Leonardo, come l'opera d'arte più iconica di Milano: «L'idea di mettere in scena la Pietà mi ha colpito profondamente dice Wilson - quel capolavoro non aveva bisogno di una scenografia ma di uno spazio, di un respiro, di silenzio, perché chi la osserva possa perdersi nei propri pensieri e nelle proprie emozioni. È allora che ho pensato alla musica di Arvo Pärt. C'è qualcosa di comune tra la sua musica e questo capolavoro: un senso del tempo che si dilata, uno spazio che si apre e accoglie. Insieme, arte e musica non raccontano, non spiegano: semplicemente, ci permettono di provare emozioni».

Per Wilson si tratta anche di un ritorno in pompa magna in una città che ama e che lo ha nell'ultimo decennio ripetutamente celebrato con performance memorabili ed esauritissime come «Odyssey», opera teatrale emblematica dell'insopprimibile bisogno dell'uomo di conoscere le radici della propria esistenza.

O come la mostra dei suoi «Tales» a Villa panza di Biumo, dove ancora una volta fece coniugare il teatro con l'arte visiva di una ricca collezione, animandola come un'opera d'arte vivente, nella convinzione che «finchè c'è vita nulla è fermo».

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