
Durante la Prima guerra mondiale, Adolf Hitler, caporale specializzatosi come staffetta portaordini, fu ferito in più occasioni. L'ultima volta, nell'ottobre 1918, venne investito da una scarica di iprite. Il terribile gas gli procurò una cecità temporanea (pare di soli tre giorni), e mentre si trovava in ospedale a Pasewalk, bendato e convalescente, l'11 novembre gli arrivò la notizia dell'armistizio di Compiègne: l'impero tedesco aveva chinato il testone di fronte agli Alleati. E lui da quel momento cominciò a pensare alla rivincita...
In un romanzo di Ernst Weiss (Brno, 1882 - Parigi, 1940) scritto nel 1938-39 ma uscito postumo nel 1963, Ich, der Augenzeuge (in Italia Il testimone oculare), il narratore che parla in prima persona è un chirurgo e psichiatra specializzatosi nello studio della cecità isterica. Il libro comincia così: «Il destino mi ha assegnato un ruolo di primo piano nella vita di un uomo che, dopo la guerra mondiale, avrebbe inflitto all'Europa un castigo inimmaginabile. Più tardi mi sono domandato spesso che cosa, nell'autunno del 1918, mi avesse spinto a quell'intervento, se fu la sete di conoscenza, dote fondamentale in uno studioso di medicina, oppure una sorta di affinità con Dio, il desiderio di recitare una volta la parte del fato». Il testimone oculare ci viene presentato come l'autobiografia di quel chirurgo e psichiatra, ma poiché: 1) anche Weiss, prima di iniziare la carriera di scrittore, fu medico; 2) fra l'altro un medico al fronte della Grande guerra; 3) e prima ancora allievo di Sigmund Freud; 4) e che quell'uomo citato nell'incipit del libro viene chiamato «A.H.», si è subito ampiamente diffusa la leggenda che Weiss avesse davvero curato Hitler. E che quindi covasse un pesantissimo senso di colpa.
Quando scrisse Il testimone oculare, il suo ultimo romanzo, Weiss già da quattro anni si trovava a Parigi, come altri intellettuali germanofoni espulsi dal regime nazionalsocialista o allontanatisi volontariamente. Vi morì il 15 giugno del '40: aveva riempito d'acqua la vasca da bagno della sua camera d'albergo dopo aver assunto del veleno, si era immerso nella vasca e si era tagliato le vene dei polsi. Quella «sorta di affinità con Dio, il desiderio di recitare una volta la parte del fato» di cui parla in Il testimone oculare è, in fondo, la classica deformazione professionale di tutti gli scrittori, una deformazione che spesso li porta ad agire (cioè a scrivere) illudendosi di essere un Fato postumo, cioè modificando il corso della storia.
Proseguendo nei rimpalli fra storia e letteratura, e restando a Weiss, un secolo prima della stesura di Il testimone oculare, ecco un grande francese (reale) al posto di uno schifosissimo austriaco (ipotetico, soltanto letterariamente). È Balzac. Dopo aver fallito nell'impresa di essere scrittore-editore (prevalentemente di se stesso), s'è messo in testa di fare lo scrittore-fattore. Ha acquistato dalle parti di Sèvres un grande appezzamento di terra con in mezzo una specie di cascina, la «Maison des Jardies». Vuole coniugare i frutti della scrivania a quelli della terra. La sua maison diventa un salotto rustico: adepti ed estimatori dell'architetto della Commedia umana vi si accalcano, come altri adepti e altri estimatori faranno a Jàsnaja Poljàna per Tolstoj. È il 3 novembre 1838, appunto, e Honoré riceve dalle mani del fedelissimo servo François una lettera...
Qui comincia Männer in der Nacht, Uomini nella notte, datato 1925, ora comparso per la prima volta in italiano (Medhelan, pagg. 210, euro 20, traduzione e prefazione di Ginevra Quadrio Curzio). La lettera ricevuta da Balzac è di pugno di un avvocato, Charles Leblanche, ma scritta sotto dettatura di Sébastien Peytel, 34 anni, ex compagno di Balzac durante la comune avventura alla rivista Le Voleur. Adesso Peytel fa il notaio, anzi lo faceva prima d'essere stato sbattuto, 48 ore prima, in galera, sotto l'accusa di aver ucciso la sua giovane, bellissima ed esotica moglie, Felice Alcazar, e il suo servo (altrettanto giovane e bello...) Louis Rey. Se ci chiedessimo previamente chi saranno gli Uomini nella notte che qui brancolano nel buio, al termine della lettura risponderemmo: «tutti e quattro», ovvero Peytel, Balzac, Napoleone Bonaparte e Weiss stesso. Quest'ultimo romanza l'effettivo ruolo giocato da Balzac nell'affaire Peytel, replicando l'artificio para-storico riguardo «A.H.»; Napoleone è sempre stato, ed è anche qui, la stella polare di Honoré (il quale voleva essere il Napoleone delle lettere), come dimostra la sua lunga digressione di fronte agli ospiti di Les Jardies, una biografia romanzata del còrso; quanto al notaio, emerge come un anti-eroe tragico, e mostra alcuni tratti che si presterebbero a una seduta psicanalitica. Pane per i denti e per la penna di Weiss, dopo l'anonimo alter ego del Testimone oculare. Balzac ovvero l'arte che pretende di essere assoluta, Peytel ovvero l'amore che pretende di essere, ma non è, e Napoleone ovvero la gloria che arriva, si ferma per un po' e poi svanisce.
Prima e dopo la lezione su Bonaparte, Balzac si getta, con la consueta generosità arruffona che lo caratterizzava quand'era lontano dalle sudate carte, sul caso Peytel, un classico noir di provincia da fare invidia a quelli di Simenon. Stende un'arringa difensiva ma la fa recitare all'avvocato Leblanche, palesemente non in grado di reggere il ruolo. Poi va più volte a far visita a Peytel nella sua lurida cella, e il confronto fra i due assume quasi i contorni di una storia d'amore fraterno (anche più che fraterno - «Forse solo gli uomini possono vivere in pace accanto agli uomini», dice Peytel, arrivato vergine trentaquattrenne al matrimonio, come la mogliettina), rievocando i bei tempi passati a Parigi, come due compari alle prese con molte gatte da pelare ma uniti da un legame omo-cameratesco. Notevole l'episodio di quando i due si legano le mani e rotolano verso la Senna, tentando di affogare. Come notevoli, dal punto di vista psichiatrico, sono la narrazione dei maltrattamenti reciproci fra moglie e marito e soprattutto la disfonia psicogena di Peytel: «Le mani del notaio sono incrociate, davanti al suo volto, ora davvero molto pallido, vellutato e ruvido, e la sua voce attraverso le mani ha un suono molto smorzato.
Ora ha assunto la tonalità di quella di Balzac a tal punto, che a Balzac pare di udire l'eco della propria stessa voce».Siamo dalle parti della Marnie e del Norman Bates hitchcockiani, a conferma del fatto che Ernst Weiss sapeva giocare, oltre che con la storia, anche con la mente dei suoi personaggi.
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