Questione palestinese, quale ruolo per il Papa?

Francesco incontrerà Peres e Abbas in Vaticano per una preghiera collettiva. Potrebbe accadere qualcosa di imprevisto

Papa Francesco allo Yad Vashem, memoriale degli ebrei vittime dell'Olocausto
Papa Francesco allo Yad Vashem, memoriale degli ebrei vittime dell'Olocausto

Quando il maggio scorso venne confermata la decisione del Pontefice di recarsi in Terra Santa, fantasticai su questo giornale sulla possibilità che questo quarto pellegrinaggio papale portasse dei fatti nuovi nella palude del conflitto palestinese. Pareva una cosa impossibile dato che tutte le fantasie, programmi, idee erano stati spremuti come limoni e tutti falliti.

Ora, con l'invito di papa Francesco al presidente palestinese Abbas e al presidente israeliano Peres di incontrarlo assieme a Roma per pregare per la pace, qualcosa di imprevisto potrebbe succedere. Molti rimangono dubbiosi, cercando di spiegare la proposta del Papa e l’accettazione senza se e ma dei due presidenti in varie maniere.

1) Tanto Abbas quanto Peres avrebbero accettato l’invito con tanto entusiasmo, pur coscienti della impossibilità che dall'incontro nasca almeno un indirizzo nuovo nel conflitto. L'interesse personale, di cui Francesco non ha bisogno, ha certo giocato un ruolo. Entrambi si trovano nella situazione che i francesi chiamano "voie de garage", fine carriera. Entrambi sono desiderosi di lasciare un segno storico, anche se solo fotografico, al termine del loro lungo mandato.

2) Anche Papa Francesco è cosciente dell'impotenza politica della Chiesa. Ha lanciato il suo invito conscio che, con tutta la buona volontà dei partecipanti, non può sgelare la reciproca sfiducia dei loro popoli, pietrificata da quasi un secolo di lotta. In tutt'altro campo, quello cristiano, lo dimostra il fallimento della piccola proposta del Papa di riavvicinamento al Patriarca ortodosso Bartolomeo I a Gerusalemme.

3) D'accordo che pregare assieme non costa molto. Ma Papa Francesco nonostante la sua straordinaria, attivissima umiltà e fede esemplare, non può ignorare il fatto che il Creatore, per essenza e definizione, non è soggetto al cambiamento. Anche per i cosiddetti credenti è diventato sempre più difficile credere che la preghiera serva a condizionare la volontà divina come se il Creatore potesse essere a disposizione degli esseri umani impegnati in lotta, sia pure attraverso il miracolo. Specie in fatto di politica e violenza, espressione tipica di passioni animali e di egoismo collettivo.

Per cui l’invito a secolari nemici – nazionalismo ebraico e nazionalismo arabo – l’invito non può essere un appello ai soliti monoteismi religiosi, strutturati, competitivi come quello mosaico, quello coranico e quello evangelico, un appello a un ecumenismo frusto e sinora dimostratosi incapace a cambiare posizioni ultra ingessate. La preghiera può essere solo quella senza timbri, aperta a tutti. Secondo la tradizione (kabalistica) ebraica è la sola che l’essere umano ha diritto a rivolgere al Creatore (e questi è disposto ad ascoltare). È la domanda ad essere aiutati a cambiare se stessi, non Lui, immutabile per natura. Passare cioè dallo stadio sia pure eroico e mistico, di egoismo, a quello di altruismo.

Qualcosa che va al di là della logica ma che nella natura e nelle società – animali e umane - ha permesso la continuazione della vita. In questo senso, assieme all’incontro senza precedenti, c’è forse qualche cosa di nuovo.

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