I copioni imperfetti delle morti solitarie di scrittori perfetti

Se si ripercorrono le ultime ore di Stefan Zweig, Cesare Pavese o Sarah Kane si scopre immancabilmente qualcosa di incongruo che agita e forse rovina il quadro, ma che restituisce al suicida la sua umanità

I copioni imperfetti delle morti solitarie di scrittori perfetti
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Niente è più ripugnante del gusto estetizzante per una morte perfetta e fa benissimo Fabrizio Coscia a intitolare preventivamente Suicidi imperfetti (Edizioni SE, 192 pagg., 15 euro) gli articoli dedicati a figure di scrittori e artisti a volte celebri, a volte noti solo agli appassionati, che hanno deciso di togliere il disturbo. Ritenuto dai sociologi il segnale di una periclitante salute della società, nel caso degli scrittori il suicidio riceve un significato diverso, trasformandosi quasi in una medaglia al valore, nella prova di una genialità che attendeva una conferma.

In realtà, se si ripercorrono le ultime ore di Stefan Zweig, Cesare Pavese o Sarah Kane si scopre immancabilmente qualcosa di incongruo che agita e forse rovina il quadro, ma che restituisce al suicida la sua umanità. Per uscire di scena, Pavese scelse un albergo nei pressi della stazione; prima di farla finita, posò un sacchetto di cialde sul lavandino del bagno. Zweig, biografo di successo mondiale e autore delle splendide memorie de Il mondo di ieri, quando si avvelenò in Brasile con la seconda moglie, nel 1942, lasciò un biglietto che Thomas Mann giudicò «del tutto inadeguato» per poi aggiungere: «Non può essersi ucciso per dolore, figuriamoci per disperazione». È qui, negli interstizi fra la necessità e l'arbitrio di un gesto tragico, che Coscia affonda con cautela il coltello della riflessione; ipotizzando per esempio, nel caso di Zweig, che un ruolo di solito trascurato avrebbe avuto la giovanissima nipote Eva, salvatasi a stento da uno spaventoso naufragio e tuttavia inadatta a qualsiasi identificazione: come figlia adottiva, protégée o parente lontana. Più che la ricerca delle cause, in queste pagine domina l'ineluttabilità della decisione di uccidersi, il meccanismo a orologeria che ticchetta nella mente dell'aspirante suicida il cui innesco varia al variare delle epoche: la guerra, che con il suo carico di atrocità spinge fra le braccia della depressione chi è vissuto negli anni della catastrofe europea, è sostituita negli anni Cinquanta dall'angoscia celebrata dagli esistenzialisti e poi, negli ultimi decenni, dal marasma sociale, economico e razziale che i cocktail di psicofarmaci non riescono a neutralizzare. Leggendo queste pagine si è costretti ad ammettere che non è vero che si muore da soli. Si muore, piuttosto, in presenza di muti testimoni, siano essi innocenti o al contrario responsabili del crollo; si tratti dei cani di David Forster Wallace, del marito di Virginia Woolf o degli amanti vampireschi di Jean Seberg, la protagonista del film più celebre di Godard, All'ultimo respiro, ritrovata in un'automobile dieci giorni dopo la sua scomparsa.

Coscia non va a caccia di spiegazioni, né vede il suicidio come un'eventualità che l'affetto, un buon psicologo o un prete intelligente avrebbero potuto confinare nel campo della possibilità. Bisogna rispettare il suicida, sembra dirci. Sono suicidi imperfetti, mai suicidi sbagliati.

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