Dieci anni fa, il piccolo popolo dei poeti, anime lillipuziane, fu sconvolto. La New Directions di New York, mitica casa editrice fondata da James Laughlin, poeta, amico di Ezra Pound, Gertrude Stein e William Carlos Williams, pubblicò il facsimile di alcuni manoscritti di Emily Dickinson. In particolare, si trattava di buste di lettere, brandelli strappati, lacerti di fogli ingialliti su cui «the myth» aveva vergato, spesso a matita - sperando, si direbbe, di sparire: l'ubiquità delle invisibili cose - alcuni versi fino ad allora ignoti. Il volume, importante, uscì con un titolo mirabile: The Gorgeous Nothings. I magnifici niente, potremmo dire. Direi, meglio ancora: lo sfarzo del nulla. Del libro, nel 2016 è stata realizzata una versione analoga, intitolata Envelope Poems, che ora possiamo leggere come Buste di poesia (il Saggiatore, pagg. 120, euro 20).
Il libro, di per sé, non aggiunge nulla al genio di Emily Dickinson, un nido di aspidi, refrattario alle indagini critiche che riducono il verbo a ludico lucro degli intelligenti. Piuttosto, aumenta il tasso d'ebbrezza della leggenda di Emily, la reclusa, biancovestita, dagli amori obliqui, che ha scritto centinaia di poesie - 1789 secondo l'edizione Franklin - tra le più vertiginose mai scritte, pubblicandone una manciata, briciole per le faine del suo tempo. Ora sappiamo che l'ispirazione della Dickinson aveva il volto di un molosso, azzannava al collo, la predava alle spalle. Tra il 1870 e il '75, per lo più, Emily usa materiali di scarto, ricicla le buste delle lettere, per tracciare versi improvvisi, che hanno aura di rivelazione. Eccone alcuni: «Misconosciuta la ferita/ crebbe tanto/ che ci sprofondò tutta la mia vita/ E avanzava spazio/ posto»; «In base a quali furori/ di pazienza/ raggiunsi la gioia stolida/ di respirare il vuoto/ senza di te». In una sorta di patchwork, la visione: «Rigonfi di musica, come ruote di uccelli/ Mantengono il loro sublime appuntamento/ di pomeriggio a occidente/ e le splendide inezie/ che compongono/ trattengono il tramonto». In una poesia - ma, ovunque, è moria di versi: lo spazio è occupato a chiazze, parole lanceolate, di sbieco, trappole - la Dickinson parla delle «condanne a morte»; la conclusione della poetessa ha, come sempre, il sacro del sarcasmo: «una matita in mano a un idolo schizzinoso/ ha spesso consegnato un uomo pio/ al crocefisso/ o al ceppo/ al palo/ fresco - mite».
Troppo facile santificare Emily Dickinson, facendone la sacerdotessa dei poeti. Per discernere il caos di questi versicoli, Nadia Fusini convoca la Sibilla Cumana - «perché Emily scrive non per svelare: scrive per indicare, accennare a un altro senso che ha a che fare con l'ombra delle parole» e «santa Teresa» (immagino si riferisca alla mistica nata ad Avila, Spagna). Gioco obliquo: ai santi ci si rivolge pregando, se si ha fede intercedono; i poeti è sufficiente leggerli, ed è salvezza quando la poesia risulta selvaggiamente bella. Più interessante quanto ha scritto, all'epoca, Dan Chiasson, sul New Yorker («Emily Dickinson's Singular Scrap Poetry», 27 novembre 2016): «le buste di poesia... sono oggetti mercuriali, più simili a un origami che a fogli di carta... per leggerle, a volte, è necessario ruotare l'immagine in senso antiorario». In sostanza, suggerisce Chiasson - che è pure poeta -, l'ordine di questi testi va sconvolto, smobilitato: si tratta - diremmo - di poesia concettuale. La domanda che segue - «Chissà quanti versi ha dimenticato la Dickinson prima di avere la possibilità di appuntarli da qualche parte...» - complica la leggenda in un rebus degno di Borges. Per i curiosi, l'esperienza va fatta on line: l'Emily Dickinson Archive costruito dalla Harvard University Press consente di sfogliare i manoscritti della grande poetessa di Amherst.
Quanto al resto, poco ci importa sapere se il mezzo - le buste da lettera riutilizzate - sia davvero il messaggio: ci basta che i testi siano placidamente sconvolgenti. Come genere letterario, in effetti, le «buste di poesia» non sorprendono. La lirica italiana del Novecento nasce in condizioni impossibili, disarmata, in trincea più che al timone di una scrivania. Giuseppe Ungaretti scrive Il porto sepolto su «foglietti: cartoline in franchigia, margini di vecchi giornali, spazi bianchi di care lettere ricevute... ficcandoli poi alla rinfusa nel tascapane, portandoli a vivere con me nel fango... non erano destinati a nessun pubblico». La poesia sboccia in questa zona franca, a rischio di vita: marginale a tutto, nel greto di scritture altrui, impubblicabile. La poesia non ha neppure un quaderno su cui giacere. Gli esempi sono miliari. Michelangelo che appunta ceppi di versi, sonetti mutili sulle carte da disegno; i microgrammi di Robert Walser; i feuillets ipnotici (Fogli d'Ipnos) di René Char, incassati in un muro di Céreste, nell'Alta Provenza, durante la Seconda guerra, perché dai proiettili fiorisca la santità del dire e la lotta riveli rose.
Insomma: nudità suprema,
nobile spreco, parola che non ha bisogno neppure dell'abito di un foglio. «Accetta la mia timida felicità», scrive la Dickinson nei suoi versi apofatici. Benvenuti nella notte oscura di Emily: queste poesie sembrano un saio.
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