È stato leggendo Il barile di Amontillado di Edgar Allan Poe che Patrick McGrath ha messo a fuoco «il problema di raccontare la follia»: ovvero, il fatto che «la finzione narrativa e la malattia psicotica sono due cose che si escludono a vicenda». Eppure, come sostiene l'autore di Follia, Spider e Trauma nella raccolta di saggi Scrivere di follia (La nave di Teseo, pagg. 252, euro 20), «la follia non è mai arbitraria, né casuale nelle sue manifestazioni e nelle sue cause». E perciò, nonostante gli ostacoli, è possibile addentrarsi in questo mondo affascinante e inquietante insieme, diventando «detective della psiche»...
Patrick McGrath, la follia è entrata molto presto nella sua vita. Come?
«Quando avevo 5 anni mio padre, che era uno psichiatra, fu nominato sovrintendente medico di un grande ospedale psichiatrico in Inghilterra, chiamato Broadmoor. Noi abitavamo molto vicino all'ospedale: incontravo i pazienti ogni giorno. Spesso sentivo anche mio padre parlare del suo lavoro. Perciò la follia ha avuto una grossa parte nella mia vita, fin da quando ero molto piccolo».
Che cosa le ha insegnato suo padre?
«Mi ha insegnato che la follia va considerata come una malattia: la malattia mentale. I pazienti che incontravamo li consideravamo uomini e donne che soffrivano di una malattia».
In uno dei saggi, Crescere a Broadmoor, racconta come vivere lì sia stato «normale». Quasi bello...
«Non è che fosse un paradiso, semplicemente era un ospedale in piena attività, pieno di dottori che curavano i loro pazienti, molti dei quali mi è capitato di incontrare e con molti dei quali ho anche stretto amicizia. Perciò sì, sembrava del tutto normale, e mio padre ha incoraggiato questo atteggiamento nei suoi figli».
La sua infanzia ha influenzato il suo lavoro?
«La mia introduzione precoce alla malattia mentale ha influenzato profondamente il mio lavoro come romanziere: molti dei miei libri si concentrano su individui che soffrono di malattie mentali. Sono stato molto fortunato ad avere avuto un'infanzia così interessante, guidato da un uomo saggio come mio padre».
Che cosa ha imparato della follia negli anni?
«Ho incontrato molte forme di follia, strane e meravigliose. È difficile immaginare che due persone considerate folli possano mostrare sintomi identici».
Perché è così difficile scrivere di follia?
«Non è così difficile, se riesci a comprendere nei dettagli la forma di follia che stai cercando di mostrare...».
Come mai è così amante della letteratura gotica?
«Non lo so. È una predilezione che ho sviluppato fin da giovane: potrebbe essere legata agli aspetti più oscuri del lavoro di mio padre».
Le sue opere preferite?
«Moby Dick, Cime tempestose e i Racconti di Poe».
La follia ci fa sempre paura?
«Sì. È troppo strana, troppo sovrannaturale per consentirci di provare comprensione ed empatia, a meno che siamo stati preparati a comprenderla».
Chi è lo scrittore che ha raccontato meglio la follia?
«Probabilmente Poe. Sembra davvero riuscire a capire quanto strana possa essere la mente umana».
E quello che l'ha influenzata di più?
«Bram Stoker. Perché ha scritto la migliore storia di vampiri di sempre, Dracula».
Qual è il suo obiettivo quando racconta gli abissi della nostra mente?
«Il mio scopo è convincere il lettore che lui, o lei, sta davvero sperimentando quel terribile incubo che fa soffrire il mio personaggio».
Che cosa ci dice la follia della nostra identità?
«Tipicamente, la follia si presenta in persone che non hanno difese forti nei confronti di eventi strani o spaventosi e, quindi, non riescono a spazzarli via facilmente. Essere folle significa essere vulnerabile».
La letteratura è l'ultimo bastione per preservare
l'identità?«Dipende da quanto potente è la minaccia. Se può essere liquidata soltanto come un incubo, come un brutto sogno, allora non c'è troppo di cui preoccuparsi. Ma se queste difese non si attivano... bisogna stare attenti».
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.