Ci sono arrivati pure loro. Anche a sinistra adesso scoprono che la Corte costituzionale è politicizzata. Quando lo diceva il Cavaliere, e quando lo ripetevano i parlamentari di Forza Italia e del Pdl, e quando lo scriveva il Giornale, i toni generali erano di commiserazione mista a disprezzo. La tesi era che la destra, intesa come un’ammucchiata indefinita di persone poco perbene, buttasse la palla in tribuna non sapendo come giustificare la collezione di sconfitte accumulate al cospetto delle algide toghe della Consulta.
Eppure alla vigilia della bocciatura del lodo Alfano, il fragile scudo pensato per mettere al riparo dai processi la figura del premier, i giornali, facendo egregiamente il loro mestiere, erano arrivati addirittura a fotografare in anticipo il risultato del voto, studiando semplicemente il profilo dei quindici giudici costituzionali, il loro orientamento culturale - così si diceva allora con un certo tasso di ipocrisia - la loro provenienza. Sì, perché i giudici nominati dal parlamento su indicazione del centrodestra tendevano a seguire una linea pro Berlusconi, quelli nominati dalle Camere su designazione del centrosinistra pendevano casualmente dall’altra, come pure i saggi arrivati alla Consulta su input del Quirinale. «La maggioranza sta sempre dall’altra parte - ripeteva come un disco rotto Berlusconi - perché gli ultimi tre presidenti della Repubblica avevano la testa a sinistra e hanno spostato gli equilibri della Corte in quella direzione».
Le critiche furibonde, politicamente non corrette, del Cavaliere venivano accolte con sorrisetti di scherno. E tutti, ma proprio tutti, lodavano l’imparzialità e la lungimiranza della Consulta che sentenza dopo sentenza smontava i lodi e le leggi costruiti dal Cavaliere e dal suo governo. Tabula rasa. La ramazza della Corte trovava sempre il sistema di fare pulizia. Di azzerare le norme faticosamente messe insieme dalla litigiosa maggioranza moderata, di far saltare i particolare quelle pensate, magari in modo pasticciato e frettoloso, per mettere un argine al diluvio di procedimenti aperti contro il Cavaliere.
Ora il Fatto quotidiano scopre, come fosse un calembour, che la «Corte è cortigiana». E l’ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia parla dal Guatemala di un «grosso passo indietro» e afferma testualmente: «Non penso che esistano sentenze che non risentono del clima generale che si respira nel Paese». Sembra uno scioglilingua, è una condanna più affilata di quelle espresse a nastro dal Cavaliere. Insomma, per Ingroia questa è «una sentenza politica».
Siamo davanti a un film inedito ma già visto, perché qualche mese fa s’erano alzate le stesse geremiadi sul tema scivoloso e contiguo delle intercettazioni. Tutti, ma proprio tutti, a stracciarsi le solite vesti quando a maledire i brogliacci era il solo Cavaliere, qualcuno molto più cauto quando era emersa la grana del Quirinale. L’imprevisto che nessuno si aspettava. Con il capo dello Stato finito a sua volta nelle trascrizioni dell’onnivora procura di Palermo. Persino Eugenio Scalfari aveva tuonato contro il solito Ingroia, aprendo un conflitto lacerante dentro i salotti della sinistra e stropicciandosi gli occhi per le gravi violazioni del codice.
Adesso, ci risiamo. La corte a composizione asimmetrica - ci si passi l’espressione - produce verdetti che scontentano chi prima la osannava. Potrebbe pure essere un bene, ma il vizio d’origine della Consulta non è sanato. Ancora qualche settimana fa in una conversazione con il Giornale avvenuta sul Frecciarossa, Berlusconi era stato esplicito: «Questo è un Paese ingovernabile. Il presidente del Consiglio fa una fatica terribile a far approvare le leggi necessarie a modernizzare l’Italia, ma poi la Corte, che ha una maggioranza di sinistra, le spazza via in un attimo». Le maggioranze possono cambiare colore, ma la voce del Palazzo rimbomba sempre in quelle stanze rarefatte.
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