Il torero giace in terra supino mentre il toro vittorioso lo trascina per l'arena, indifferente ai disperati tentativi del picador di distrarne l'attenzione. La sfortunata morte di Pepe Illo a Madrid, acquaforte datata 1816, è l'ultima di una serie di 33 esemplari della Tauromachia di Francisco Goya, tra le opere in mostra a Palazzo Reale di Milano. La scena è spoglia nella sua tragica crudezza, il nero tratto con cui il maestro aragonese tratteggia i tre personaggi essenziale senza alcuna concessione al dettaglio folclorico e manieristico che sempre ha caratterizzato le stampe taurine della sua epoca. E difatti la collezione, che comprendeva altre sette immagini incise sul retro delle lastre, non ebbe il successo commerciale che Goya si aspettava, un mezzo fiasco giunto in un momento di difficoltà economiche per il maestro, in crisi anche con il nuovo regime fernandino da cui dovette discolparsi per le accuse di collaborazionismo con i bonapartisti. Ma quelle stampe in bianco e nero, come pure i precedenti dipinti sulle corride spagnole in mostra - tra cui Suerte de matar (1793), El arrastre (1793) e La corrida de toros (1808) - rappresentano quasi uno spartiacque tra le istanze del pittore «di corte», incline a darsi notorietà su temi laici, tradizionali e folclorici, e quella ribellione della ragione che lo spinse in un personalissimo sentiero illuministico per cui l'arte è soprattutto il frutto dell'esperienza, anche sofferta, e della visione del mondo che lo circonda.
Un mondo che gli piaceva sempre meno, come testimonia un ciclo di incisioni coeve, quei Disastres de la guerra in cui come un consumato reporter raccontava le efferatezze della guerra di Indipendenza spagnola. Una tematica «pop» come quella delle corride parrebbe invece stridere di fronte alle crudeltà rappresentate nei Desastres. Nondimeno, per una parte della critica d'arte spagnola, anche nella Tauromachia sarebbe nascosta una critica spietata verso l'istinto crudele dell'uomo da cui soccombono sempre i più deboli: ora i civili di una guerra (mai tema fu più attuale), ora i derelitti rappresentati nelle stampe dei Disparates, ora appunto le vittime della corrida, prime tra tutte i cavalli che periscono come in un macabro rito rappresentato nel dipinto Suerte de matar; quella corrida che, come scrisse Hemingway in Morte nel pomeriggio, «è una tragedia, non uno sport».
Ma Goya, a differenza di Hemingway che esaltava la sensualità dell'arena, e dello stesso Picasso per il quale il toro è una divinità mitologica punto di equilibrio tra istinto e raziocinio umano, non fu capace di sottrarsi al lucido pessimismo che, di lì a poco, sarebbe sfociato nei «Dipinti neri».
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