Una delle domande su Karl Ove Knausgård era: e dopo? Ovvero, dopo i sei volumi di La mia battaglia (Feltrinelli), in cui ha raccontato la sua esistenza dall'infanzia ai quattro figli, passando per la morte del padre, l'abisso della depressione e qualsiasi dettaglio possibile su di sé, che cosa avrebbe potuto scrivere l'autore norvegese diventato il re dell'autofiction? Prima è stata la volta dell'«Enciclopedia delle stagioni» per la figlia nascitura, ora è un romanzo, La stella del mattino (Feltrinelli, pagg. 668, euro 24): vari personaggi, presi tra fallimenti e guai, assistono al sorgere di una stella luminosissima, presagio forse di sventura, visto che compaiono anche uccelli con le scaglie, granchi giganti sulla terraferma e morti viventi... Knausgård risponde al telefono da Londra, dove vive: una parete strapiena di libri alle spalle, la sigaretta elettronica fra le dita. Domani sarà a Milano, al Teatro Dal Verme (ore 20.30), ospite d'onore di Bookcity.
Karl Ove Knausgård, come è stato tornare al romanzo?
«Volevo fare qualcosa di diverso, ormai avevo scritto di me per un po'... Mi piaceva l'idea di esplorare voci molto differenti, e questo è proprio ciò che il romanzo permette di fare. E poi io ho cominciato così, i miei primi due libri erano romanzi».
Come è andata?
«È sempre difficile iniziare un romanzo. Non è qualcosa che si possa imparare... Per me il romanzo si sviluppa con la scrittura: non controllo nulla, non è che io mi dica sarà così. Ho cominciato con un personaggio. L'unica cosa che sapevo era che sarebbe sorta la stella del mattino».
Che cos'è questa stella?
«Volevo qualcosa che nessuno sapesse che cosa fosse, un fenomeno che non si potesse definire. Abbiamo definizioni e teorie su tutto, ma poi su ciò che sta al fondo non sappiamo nulla: la vita, la coscienza, la morte... La stella è il simbolo di qualcosa di sconosciuto che non possiamo definire. E poi c'è anche il fascino di un'immagine infantile, quella dell'angelo caduto dal cielo, che è arrivato sulla Terra come una stella».
Infantile fino a un certo punto, visto che quell'angelo è Lucifero.
«Sì. La stella del mattino è un nome dato a Gesù, ma anche all'angelo che è caduto ed è diventato il diavolo. E questa ambivalenza mi interessa».
C'è una atmosfera da apocalisse nel romanzo. La pandemia l'ha influenzata?
«In realtà, prima della pandemia ne avevo già scritto un terzo, poi nel lockdown l'ho terminato. Dopo ho notato una somiglianza di struttura: come, nel lockdown, noi eravamo chiusi nelle nostre bolle, nelle nostre famiglie e nelle nostre case e fuori c'era qualcosa di minaccioso, così i personaggi del romanzo vivono nelle loro bolle, nelle loro vite e, fuori, c'è qualcosa che tutti vedono, e a cui reagiscono in modi diversi».
Una catastrofe?
«C'è un senso di inquietudine, gli animali si comportano diversamente, appaiono delle persone morte... Noi abbiamo la filosofia, la politica, la biologia, tutto bello in ordine e poi arriva qualcosa che ci sfida e ci fa paura, ci scombussola. Ho cercato di spingermi al confine tra vita e morte, che pensiamo sia chiaro, e invece non lo è».
Non si possono immaginare i suoi libri senza i boschi, il mare, i fiordi della Norvegia: che rapporto c'è fra natura e letteratura?
«Credo di essere uno scrittore molto visivo: non posso scrivere senza un luogo. E sono anche molto interessato al corpo e, quindi, alla morte. Nel prossimo libro ci sarà una foresta, simbolo della coscienza».
Quindi c'è un seguito?
«Sto già scrivendo il quarto libro, credo che in totale saranno cinque o sei».
La letteratura ha un ruolo?
«Per me è uno spazio di libertà, dove posso pensare in modo diverso, esplorare e scoprire le cose; ed è un luogo dove le cose sono fatte, costruite, il che per me è molto bello. Un luogo dove si può guardare alla complessità, mentre nel mondo tutto verte sulla semplicità».
Ha dei limiti?
«Che sorta di limiti? No, non credo. È un posto dove tutto può essere esplorato. Ci sono dei limiti, morali, all'autofiction: devi essere dignitoso».
Rimpiange qualcosa?
«No. Avevo spedito il manoscritto di La mia battaglia alle persone coinvolte. È difficile, ma credo ci sia una linea da non oltrepassare».
Come fa a ricordare ogni dettaglio della sua vita?
«Ho una buona memoria visiva, collegata alla creatività: la mia esperienza parte da un luogo, scrivo, e poi le cose riemergono, me le ricordo scrivendo».
Scrive moltissimo. Ha una routine?
«Devo ascoltare la musica e avere una sigaretta, che adesso è questa elettronica... Scrivo cinque ore al giorno, per cinque giorni alla settimana, almeno tre pagine al giorno».
Anche qui usa sempre la prima persona. La «battaglia» non è finita?
«No, no... Io preferisco la prima persona perché da lì vedo tutto. La coscienza mi affascina: è qualcosa che non sappiamo dove sia, ma è anche l'unica cosa che sappiamo per certo che esista, perché è attraverso di essa che vediamo il mondo. Ma il sé non è puro, la complessità è grande e i romanzi possono rifletterla, più di altre forme d'arte».
Come?
«Da romanziere sono interessato a cose diverse e non a una singola verità, a un significato solo.
Il senso nasce attraverso l'interazione di più libertà: l'esempio migliore è I fratelli Karamazov di Dostoevskij, un libro ancora così vivo, in cui ogni lettore sente la propria vita. Ed è questo che fanno i romanzi migliori».
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.