Il finale è ancora una cicatrice. «Questo è l'ultimo articolo che compare a mia firma sul giornale da me fondato e diretto per vent'anni». È il 12 gennaio 1994, un mercoledì, il sole a Milano è tramontato quattro minuti prima delle cinque e il cielo è di un grigio meccanico. Fra poco più di due mesi accadrà quello che in pochi si aspettano e l'Italia tornerà a dividersi tra il contro e il pro. Indro Montanelli, in fondo senza grande sorpresa, starà con i primi. A se stesso dirà che è tra quelli che non se la bevono, gli ápoti del suo amato Prezzolini. Fonda La voce e in un attimo si ritrova alla sinistra di se stesso, applaudito da chi lo chiamava fascista. Si beve quello che accade con un certo disorientamento. È la fine di un secolo che non smette di accelerare mischiando le carte. Montanelli lo asseconda con un ultimo gesto di orgoglio. Il divorzio umano e politico da Silvio Berlusconi non è però solo uno strappo personale, ma coinvolge una larga famiglia di lettori e giornalisti.
È uno spaesamento, con legami che si stracciano, proprio come accade in quelle schiatte di parenti e affini che litigano per l'eredità e non si parlano per una schiera di anni, al punto da non concordare neppure sull'origine dei fatti. L'autunno del patriarca disperde ogni cosa. I lettori per lo più resteranno vicini alla vecchia casa. I giornalisti del Giornale, quelli che c'erano e quelli che verranno, perderanno di fatto il diritto di chiamarsi montanelliani. Si ritrovano così orfani del proprio passato. Indro è il padre di una generazione di figli bastardi, non riconoscibili e non riconosciuti, colpevoli per giunta di aver usurpato la casa del vecchio.
Il primo numero del Giornale è del 25 giugno del 1974. Ci siamo. Stanno arrivando i 50 anni e quella cicatrice comincia a scolorirsi. Non è affatto andata via, ma il tempo qualche volta funziona, perfino in una terra dove ci si sente ancora guelfi e ghibellini, figuriamoci il resto. Un segno arriva anche da un libro che troverete in edicola e libreria. È un abbraccio al patriarca. L'editore è Rizzoli, ma verrà allegato a questo quotidiano. Non è roba da poco, perché il Giornale non ha mai potuto pubblicare gli articoli scritti da Montanelli su queste pagine. Il vecchio giustamente si era tenuto tutti i diritti. È una sorta di ritorno a casa postumo.
Il titolo è Come un vascello pirata. Il curatore dell'opera sta seduto, in apparenza indaffarato, proprio in questa redazione. Si chiama Luigi Mascheroni (ti viene da dire detto Gigi, ma non si candida alle elezioni).
È un uomo da prima pagina, taglio basso, rubrica breve, passo sferzante, retrogusto di satira e cazzotti. Se gli chiedete cosa condivide con il Cilindro vi dirà solo lo smoking per la Prima della Scala. Non è vero, ma facciamo finta di credergli.
Le prime sei parole del libro sono queste. «Mai stato montanelliano. Mai conosciuto Montanelli». Lo dice per rivendicare quel ruolo di usurpatore che gli brucia sulla pelle o, magari, perché si sente allergico alle processioni di devoti. L'idea è un po' quella anche di spiazzare e non è un caso che nelle ultime pagine ci siano le testimonianze di insospettabili amici: Bergonzi, Bersani, Breda, Casiraghy, Damascelli, Gabutti, Jocelyn, Mughini, Pende, Ravasi, Serra, Ruth Shammah, Vanzina, Venier.
Non è mai facile fare i conti con le origini. Maschera, altro diminutivo, le racconta così. «La sera prima, in tipografia, quando il proto da dietro il bancone allungò nelle mani di Montanelli la bozza della prima pagina, mentre si brindava all'evento con champagne caldiccio in bicchieri di plastica, Indro chiese a Egisto Corradi: Cosa te ne pare? Fa schifo, rispose il grande inviato. E noi? lo fulminò Montanelli. Noi no, direttore. Noi mai, aggiunse il fondatore sorridendo».
Il 1974 è un anno dal sapore bastardo. È l'austerità della benzina alle stelle e la domenica in bicicletta. È la vittoria in campionato di una squadra di canaglie allenata da un gentiluomo. È l'addio di una compagnia aristocratica di corsari dal Corsera.
È una fuga, un cantiere, un'idea borghese in mezzo al caos, un gruppo di giornalisti che si ostina a fare giornalismo, con una vena dispettosa di anarchia. Il condottiero è un direttore ultrasessantenne che non ha mai fatto il direttore, perché la vocazione del potere non gli appartiene e non ne ha mai avuto bisogno. È il principe dei giornalisti italiani e si sente un D'Artagnan e forse non è un caso che il suo editoriale di addio si intitoli «Vent'anni dopo». È un omaggio a Dumas e al romanzo d'appendice dei moschettieri. È la sua infanzia. Montanelli è il motivo per cui tanti hanno sognato, più o meno invano, di fare i giornalisti.
I più meschini sono quelli che sono stati accontentati.Non resta che lasciarsi con un suo Controcorrente. «Roma è nei guai. La neve blocca tutto: strade, piazze, mercati, uffici. Blocca anche - scrivono i giornali - la vita politica. Purtroppo, poi si scioglie».
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