“Tutte le donne del mondo sono membri della stessa famiglia” si legge su una moneta di bronzo risalente alla metà del XIX secolo rinvenuta nel sud est della Cina. I caratteri incisi, però, non sono in cinese, ma in Nüshu, probabilmente ancora oggi l’unica lingua scritta al mondo inventata e utilizzata esclusivamente dalle donne. Per essere precisi, da poche contadine della remota contea dello Jiangyong, nella provincia cinese dello Hunan. Costrette all’analfabetismo e a una vita di sottomissione ai doveri coniugali, quasi un millennio fa escogitarono un sistema grafico semplificato per comunicare tra loro nei momenti di riunione, ma anche per scambiarsi confidenze lontano da occhi indiscreti.
Un alfabeto semplice quanto antico
I simboli grafici del Nüshu sono la trascrizione in sillabe dei suoni dei dialetti locali e, a differenza di quelli cinesi, non hanno alcun significato semantico. Sono caratteri più sottili e aggraziati, dalle forme tondeggianti e allungate, scritti in colonne verticali da destra a sinistra servendosi di bastoncini di bambù affilati intinti in un inchiostro improvvisato con i fondi bruciati dei wok. Tenendone in considerazione le varianti, si contano poche migliaia di ideogrammi, niente a che vedere con gli oltre 50mila dell’alfabeto cinese. Le donne, relegate ai lavori di casa, componevano in Nüshu poesie, indovinelli, storie e canzoni popolari, che ricamavano poi su ventagli, abiti e fazzoletti. I testi, sempre in versi, non venivano mai letti, bensì cantati durante i momenti di lavoro o durante le feste e i riti rigorosamente riservati alle donne.
Una leggenda vuole che il Nüshu discenda dalle scritte che gli oracoli incidevano sugli ossi più di 2.500 anni fa. Un’altra leggenda ci parla di una fanciulla che, data in sposa all’imperatore e perciò prigioniera delle formalità della corte, inventò una scrittura segreta per poter comunicare con le sue amiche. Aldilà delle credenze popolari, gli storici collocano la massima diffusione del Nüshu durante l’ultima fase imperiale della dinastia Qing, che regnò dal 1644 al 1911, ma ipotizzano che la sua origine possa essere molto più antica e risalire almeno al X o XI secolo.
La lingua delle confidenze
Ciò che è certo è che le donne dello Jiangyong hanno custodito e tramandato questa scrittura di madre in figlia per secoli, dando vita a una vera e propria tradizione culturale femminile che per migliaia di cinesi ha rappresentato non solo l’unico strumento per esprimersi liberamente, ma anche l’unica fonte di conforto in una vita fatta di oppressione e solitudine. Tanto che alcune studiose hanno notato che per decenni i suicidi femminili nella contea sono stati molto più limitati che in altre zone della Cina rurale, ma anche inferiori alla media nazionale.
Questo perché le donne si servivano del Nüshu anche per comporre i cosiddetti “libri del terzo giorno”, donati alla neosposa nel momento in cui, come spesso accadeva, era costretta a lasciare il villaggio natio e di conseguenza i suoi affetti. Oltre agli auguri di felicità, in questi libri venivano lasciate delle pagine bianche affinché fungessero da diario per la neosposa, perché diventassero uno strumento per raccontare la vita coniugale, per confidare i pensieri più intimi, per esprimere il dolore e le difficoltà e, magari, anche superarli. Delle vere e proprie autobiografie, ma anche lettere inviate poi alle amiche lontane per mantenere i contatti. Amiche con cui avevano instaurato, prima del matrimonio, un legame inscindibile, di sorellanza: si consideravano laotong, compagne giurate per la vita.
La scoperta del Nüshu
Quest’alfabeto è rimasto sconosciuto agli uomini non tanto perché ci fosse un’esplicita intenzione di tenerlo segreto, quanto per il loro totale disinteresse. Almeno fino agli anni ’50 del ‘900, quando fu sospettato di essere uno strumento di comunicazione al servizio dello spionaggio anticomunista e, nel decennio successivo, finì nel mirino persecutorio della Rivoluzione Culturale di Mao Zedong, che portò alla distruzione di molti dei testi conservati fino a quel momento.
Curiosamente, molto di quello che sappiamo di quella che è stata poi chiamata Nüshu, che significa letteralmente “scrittura delle donne”, lo dobbiamo a un uomo, Zhou Shuoyi, che ne scoprì l’esistenza proprio negli anni ’50 quando sua zia si sposò con un uomo di un villaggio in cui le donne ancora se ne servivano per comunicare. Le sue ricerche furono interrotte perché ritenute non in linea con i dettami della Rivoluzione: fu mandato nei campi di lavoro fino al 1979 e i testi che stava esaminando vennero distrutti. Una volta libero, Zhou riprese a studiare il Nüshu grazie ai testi sopravvissuti perché sotterrati o sepolti con le loro autrici. E, con l’aiuto dell’ultima donna che sapeva leggere e scrivere la lingua, Yang Huan-yi, ne decifrò l’alfabeto, pubblicandone nel 2003 il primo dizionario.
Da quel momento la lingua, caduta in disuso a causa della morte delle vecchie scrittrici e del sempre maggiore accesso all’educazione delle donne cinesi, ha vissuto una fase di rinascita, attirando sulla contea dello Jiangyong i riflettori non solo accademici, ma anche popolari e istituzionali.
Il governo cinese, in particolare, ha dedicato grande attenzione alla promozione e valorizzazione del Nüshu, tanto da aver trasformato la lingua in un'attrazione turistica della zona. Che, nonostante la commercializzazione, apre una finestra sulla storia della condizione femminile in Cina e sulla memoria collettiva di queste donne che, costrette al silenzio, hanno trovato comunque la loro voce.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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