La guerra per la lingua, cominciata come tutte le guerre con le migliori intenzioni, ha finito per mostrare le conseguenze peggiori: asterischi e schwa di cui anche i più fanatici utilizzatori non sanno più cosa fare; e inutili provocazioni come quella dell'Università di Trento dove ora si usa il femminile per tutte le persone - rettrice, segretaria, candidata - anche se sono maschi. E così si finisce là dove Edoardo Lombardi Vallauri inizia - con feroce ironia - il suo saggio Le guerre per la lingua (Einaudi), la dedica. «A Deb, mia sostegna».
Sostenuto dalla convinzione che non esista alcun sessismo nel lessico e nella grammatica (a dare forma alla lingua sono semplici principi di economia e comodità, non retropensieri ideologici) e forte di una competenza professionale (insegna Linguistica all'Università Roma Tre) che lo mette al riparo da scivoloni estremisti tipo la «gramma-mante» Vera Gheno, l'autore spiega storia, regole e funzionamenti della lingua. Bocciando e sconsigliando.
Esempi. Chi al posto di sindaca e ministra continua a usare il maschile, non lo fa per una mentalità sessista, ma per motivi fisiologici: abitudine e comodità. Parrocca e confessora entreranno nel vocabolario solo se la maggioranza delle persone - col tempo, seguendo la normale evoluzione della lingua e non per imposizioni esterne le userà quotidianamente e spontaneamente. Insomma, quando non dovrà più perdere tempo a pensare di usare una parola ritenuta più «corretta» invece di un'altra. E poi: quando ci riferiamo a individui di tutti i sessi usiamo il termine persona. Dovremmo concludere che l'italiano è una lingua femminista?
Tutti noi parlando vigiliamo in maniera inconscia ma necessaria sulla struttura della lingua secondo un unico scopo: semplificarla. L'uomo (va bene, anche la donna...) nel parlare scarta tutto ciò che è complicato, fa perdere tempo o richiede sforzi di attenzione. Non c'è alcuna discriminazione di genere. La lingua non si addomestica, non si educa, non si addolcisce e non si femminilizza. Fa tutto da sola con un unico obiettivo: comunicare nella maniera più veloce e efficace possibile.
E si arriva al punto più dibattuto: l'uso generalizzato delle forme del maschile. L'accusa è che così si vuole esprimere un genere; quando invece si fa esattamente il contrario: non si esprime alcun genere. Esempio: nella frase «Il sole ha asciugato le panche» il participio ha la stessa forma del maschile singolare non certo per stabilire gerarchie di valore, ma per non esprimere un genere o un numero. È una scelta del tutto neutrale. È il cosiddetto maschile sovraesteso. Che però è più corretto chiamare «maschile non marcato». E il perché lo spiega Lombardi Vallauri: «La lingua, più che trattare come maschili le femmine, ricicla le forme del maschile anche per la neutralizzazione del genere, cioè per non esprimerlo. Questo le consente di fare economia di forme, evitando di creare una ulteriore serie di desinenze apposta». Le desinenze del maschile al plurale («I bimbi sono nel cortile», anche se tra i bimbi ci sono sia maschi che femmine) non vuole esprimere maschilinità, semplicemente non vuole esprimere alcun genere.
Poi - ecco il punto - bisogna chiedersi perché in grammatica ha prevalso il maschile come scelta più economica e neutra.
Perché - è un'ipotesi - nell'evoluzione dell'uomo (e della donna...
), il maschile è stato sentito in grado di rappresentare entrambi i generi meglio del femminile. Fra un nemico e una nemica, quello più rappresentativo della categoria era il nemico. E fra un figlio e una figlia, il figlio. E tutto ciò avveniva quando non esisteva nemmeno l'idea di «patriarcato». Né la parola.
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