Tadini e gli anni '60, pittura e sguardi tra Freud e Warhol

Alla Fondazione Marconi, gli esordi di uno degli artisti più originali del Dopoguerra

Tadini e gli anni '60, pittura e sguardi tra Freud e Warhol

Difficile trovare definizioni per Emilio Tadini. Che etichetta puoi mettere a uno che a soli vent'anni esordisce con un poemetto sul «Politecnico» di Elio Vittorini, poi diventa critico letterario, romanziere e poeta e contemporaneamente, nella sua casa-studio di via Jommelli abbraccia la pittura e la sperimentazione, esponendo ovunque (incluse due Biennali di Venezia), fino a diventare presidente dell'Accademia di Brera? Intellettuale sui generis, l'Emilio, come molti chiamavano Tadini (1927-2002), che amava girare in biciletta in zona Porta Venezia e di tutto s'interessava: arte, letteratura, cinema, ambiente, politica. Dotato di pensiero originale, battuta pronta e gran senso pratico, conosceva bene e amava Milano: Palazzo Reale, un anno prima della scomparsa (prematura davvero: avrebbe salutato con un sorriso l'Expo e i nuovi quartieri di Porta Nuova), gli dedicò un'ampia personale. Molte per la verità le mostre, in Italia e all'estero, che ha collezionato e che continua a ispirare: nella Casa Museo Spazio Tadini, fino al 20 aprile, è esposta Profughi, dedicata all'omonimo ciclo degli anni Ottanta e Novanta, emblematica fin dal titolo. Tuttavia, l'esposizione che apre oggi alla Fondazione Marconi merita un'attenzione particolare: fa scoprire (o riscoprire) gli esordi creativi di un artista poliedrico, per il quale immagine e parola sono andati sempre a braccetto, in un sottofondo pop che suona ancora contemporaneo.

Emilio Tadini 1967-1972 (fino al 28 giugno, da martedì a sabato dalle 11 alle 19) si concentra su un quinquennio importante: quello in cui nasce l'inconfondibile «stile Tadini». Lo cogliamo fin dal primo ciclo in mostra, ovvero Vita di Voltaire, dedicato all'arguto filosofo francese tanto amato (e citato: Tadini era colto e sarcastico, mai erudito o saccente). Fondo chiaro, bianco o grigio, e la silouette del personaggio in primo piano, senza volto o di spalle: un paltò e un cappello scuro bastano a portarci nel mondo metafisico delle idee. È il momento della svolta: la pittura per Tadini diventa (nel numero di ore della giornata, nell'impegno fisico e mentale) sempre più importante, scalzando la letteratura e gli studi. Si trasforma in vera «attività professionale», come lui diceva. Nel passaggio c'è lo zampino di Giorgio Marconi: è grazie all'incontro con l'amico, collezionista e gallerista tutti sempre apparecchiati al Jamaica di Brera che Tadini affina la sua tecnica, alleggerisce la materia pittorica, sfrutta la letteratura quale appunto per un'immagine da porre sulla tela. Fin dalla metà degli anni Sessanta la pittura di Tadini procede per grandi cicli, quasi fosse un poema in «versi visivi» o un romanzo illustrato a puntate. Il surreale si mescola con la metafisica, la citazione colta con il pop: in mostra, seguiamo il flusso di coscienza dell'intellettuale che ama procedere per evocazioni e associazioni. Osservi «L'uomo dell'organizzazione», i lavori del ciclo «Color» o quelli del «Viaggio in Italia» e, agli inizi degli anni Settanta, la serie «Archeologia», e subito pensi che tutto, in fondo, è molto semplice e chiaro. Poi, il titolo o un dettaglio suggeriscono la presenza di molteplici significati nascosti: psicanalisi, filologia, filosofia si amalgamano per bene sulla sua tavolozza.

Come i grandi maestri della letteratura che tanto amava, sapeva dominare il registro comico e quello tragico, dipingendo in bilico tra realismo e sogno: Emilio Tadini è il nostro David Hockney, i suoi racconti per immagini a guardarli oggi sono più attuali che mai.

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