![I boss, la mafia e il "livello basso". Cosa c'è dietro il maxi blitz a Palermo](https://img.ilgcdn.com/sites/default/files/styles/xl/public/foto/2025/02/11/1739270551-palermo-blitz-mafia.jpg?_=1739270551)
Non c’è più la mafia di una volta, e questa è la migliore notizia. L’operazione dei carabinieri di Palermo che ha visto finire in manette più di 180 persone, ci insegna qualcosa in più su come è cambiata Cosa Nostra, la cui presa sul territorio rimane nonostante tutto. Dalle risultanze investigative, in attesa che i processi confermino le intuizioni e le tesi della Procura di Palermo guidata da Maurizio De Lucia, viene fuori uno spaccato interessante. Sembra che la mafia eserciti ancora il suo fascino ma faccia più fatica ad assoldare picciotti affidabili: «Il livello è basso oggi arrestano a uno e si fa pentito, arrestano un altro... livello misero, basso, ma di che cosa stiamo parlando?», si sfoga un affiliato di Cosa Nostra intercettato dai magistrati. Chiacchiere consegnate agli inquirenti da boss fin troppo sicuri di parlare grazie a criptofonini considerati a torto impenetrabili, altra ingenuità costata carissimo.
Dalle carte emergerebbe la difficoltà dei boss di «interloquire con il potere politico ed economico» per uno sfavorevole ricambio generazionale legato alla mancanza di soggetti all’altezza di questo incarico - e non perché la politica e la pubblica amministrazione rifiuti le lusinghe mafiose, purtroppo - con l’effetto di far venir meno, all’interno del sodalizio mafioso, la solidarietà nei confronti di chi finisce nelle mani dello Stato e ha bisogno di essere mantenuto in cella, altrimenti parla. «Cosa Nostra si affanna nel farsi carico del mantenimento dei sempre più numerosi detenuti di mafia e delle loro famiglie e, parallelamente, stenta ad intraprendere perfino le iniziative bastevoli ad assicurare il soddisfacimento degli essenziali bisogni finanziari del sodalizio», scrivono i pm della Dda di Palermo. In altre inchieste è emerso come le famiglie si «prestassero» reciprocamente i picciotti per gli affari di droga, sempre e comunque malvisti dalla vecchia mafia, per risparmiare sulla forza lavoro da mantenere in carcere, tanto che a volte lo spaccio era affidato a manovalanza straniera che poi veniva regolarmente abbandonata in carcere. Segno dei tempi ma anche di una mafia siciliana uscita dilaniata dalla guerra con lo Stato degli anni Novanta e incapace di trovare leader mafiosi capaci di un lavoro di ricucitura interno alle famiglie. A differenza della ’ndrangheta, in cui i rapporti tra le famiglie - non sempre idilliaci, anzi - hanno delle camere di compensazione gestite da boss storici la cui parola ha un peso negli equilibri di potere, la mafia si è trovata senza un capo di carisma. E si è compreso, dopo l’arresto di Matteo Messina Denaro e la sua triste fine, che durante la latitanza il boss trapanese ha preferito privilegiare i suoi interessi rispetto a quelli delle altre famiglie, come da un capomafia ci si sarebbe aspettato.
Non è un caso se il boss Giancarlo Romano (poi ammazzato) sottolineava in un’intercettazione «la decadenza dell’associazione» e la necessita di «un’adeguata formazione culturale delle nuove leve per renderle capaci di ritornare ad interloquire, alla pari, con il potere politico ed economico». Rispetto alla mafia calabrese, Cosa Nostra arriva tardi a immaginare di mandare i rampolli a studiare, a «farsi il cervello tanto», a conoscere «dottori, avvocati, quelli che hanno comandato l’Italia, l’Europa...», insomma ad avere capacità di influenzare il potere come faceva Micheal Corleone nel film «Il Padrino». Purtroppo per loro, il business della droga - diventato la prima fonte di reddito della mafia - è in mano alla ’ndrangheta e a una rete di distribuzione consolidata tra albanesi e cartelli di narcos sudamericani in cui la mafia non tocca palla: «Siamo troppo bassi, siamo a terra ragazzi, non a terra noi come zona, tutta Palermo è a terra (...). Noi pensiamo che facciamo il business, oggi sono altri. Dico eravamo prima noi, oggi lo fanno altri... quelli si fanno il business, noi siamo gli zingari», dice ancora il boss.
Anche le dazioni di denaro di cui si lamenta qualche capomafia al telefono («devo dare mille euro a Giulio, mille euro a mio cugino Calogero, mille euro a suo padre, mille euro a suo fratello e mille euro a mia cugina Rosalia che è con gli arresti domiciliari là sopra») tradiscono la mancanza di un collante solidaristico-familiare fondamentale per la tenuta dell’organizzazione mafiosa. Quando un altro capo mafia si lamenta del costo per il mantenimento di un boss in disgrazia dice al telefono: «Ma questo non è che... gli pare che c’è... la banca? Non è che, per dire, uno è impiegato all’Inps». Ora, il mercato della droga è così redditizio che un euro investito in Colombia ne vale 1.500 sul mercato finale. Questo dimostra che la mafia siciliana è nella parte finale della piramide organizzativa che i suoi margini non sono sufficienti a mantenere l’organizzazione.
Da qui la necessità di tornare all’antico, all’organizzazione pre Totò Riina, ma senza riuscirci. Secondo una delle intercettazioni citate dal procuratore di Palermo de Lucia i boss hanno nostalgia del passato. «Non c’è più ddu cuosu ri trent’anni fa… se l’hannu fattu tre volte e tre volte al nascere della Cosa hanno arrestato a tutti... trent’anni fa si faceva e non si sapeva niente... si faceva... ora invece sappiamo tutte cose». Per la serie, Cosa Nostra riusciva a rinascere dalle sue ceneri. Oggi non più.
Ma attenzione, parliamo solo della parte «militare» dell’organizzazione. La borghesia mafiosa che consente di riciclare i proventi dei traffici altrove - tanto che qualche boss vorrebbe lasciare l’Italia - non sembra neanche sfiorata dalle indagini. È da qui che la Procura deve ripartire.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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