Non basta più un clic per "vedere" la realtà

Le possibilità offerte dalle nuove tecnologie possono confondere, nascondere, ingannare

Non basta più un clic per "vedere" la realtà

A Parigi, nel 1874, ci fu la prima mostra dei pittori Impressionisti nello studio del grande fotografo Nadar. La sede non era casuale: si diceva che Nadar navigasse in cattive acque e che ospitare quella mostra gli avrebbe dato un buon riscontro economico. L'esposizione fu un fallimento sia per i giudizi della critica, sia per il rientro economico. In realtà, quella trentina di artisti che si ritrovarono nell'atelier di Nadar - Sisley, Renoir, Pissarro, Cézanne, Degas, Monet... a quel tempo poco apprezzati - avevano compreso che la rappresentazione pittorica della realtà dovesse incominciare a fare i conti con la fotografia che da una trentina d'anni stava irrompendo nelle abitudini di vita della borghesia europea.

La pittura era stata nei secoli lo strumento più affidabile per raccontare la realtà con immagini religiose, laiche, paesaggistiche mentre ora veniva messa in crisi dal modo in cui la fotografia rappresentava la verità di ciò che era visto e percepito. Certo, un tema antico su cui si era interrogata la filosofia fin dalle sue origini: si ricordi il «mito della caverna» nella Repubblica di Platone, con il quale veniva spiegato il rapporto tra la realtà e l'immagine, un problema che non ha mai abbandonato la ricerca filosofica. Tuttavia, la particolare tecnica fotografica, con il suo catturare un istante nel fluire della realtà, apriva quel problema a nuove e affascinanti riflessioni.

Subito si comprese che la bravura del fotografo stava nella capacità di mostrare ciò che tutti avrebbero potuto vedere ma che non vedevano. Non una fuga dalla realtà, ma, al contrario, una intensificazione della realtà nel suo svelare quel dettaglio che sfugge a uno sguardo distratto, a una superficiale percezione delle cose. Un'immagine fissata dal fotografo in un preciso attimo di luce, sottratta così al trascorrere del tempo e alla sua inevitabile cancellazione impegnava l'osservatore a comprendere il significato di verità che essa voleva comunicare.

Contro questo potere del fotografo, l'artista - il pittore - comprende che non potrà mai gareggiare: Claude Monet nel 1872 dipinge un quadro che intitola Impression, soleil levant: uno scorcio nella bruma mattutina del porto di Le Havre, due piccole imbarcazioni, il disco rosseggiante del sole che si leva all'orizzonte. Appunto, l'impressione dell'artista che osserva e dipinge una scena forse tante volte ammirata, per comunicare il proprio sentimento senza nessuna pretesa di rappresentare la realtà oggettiva di ciò che sta guardando. Su quell'opera, il critico Louis Leroy espresse tutto il suo disappunto perché gli dava un senso di incompiutezza, si fermava a una superficiale impressione.

Così, mentre la fotografia entrava a vele spiegate nella cultura di massa, lasciando che tutti con un semplice clic potessero mettere in bella mostra o in un cassetto un piccolo ricordo di vita quotidiana, l'arte con i suoi sperimentalismi formali - del cubismo, dell'astrattismo, dell'informale... - diventava sempre più elitaria, indifferente a comunicare e a condividere con il pubblico il senso delle cose.

La fotografia, rispetto al quadro del pittore presenta un'assoluta novità: è realizzata con una tecnologia che ne consente la riproduzione, e se paragonata a una tradizionale opera d'arte è chiaro che non possa avere il suo stesso valore di unicità e autenticità. Ma anche l'arte, in questo tempo in cui la tecnologia ne consentirebbe una perfetta riproduzione, potrebbe andare incontro alla stessa perdita di autenticità e originalità. In un famoso saggio, L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, il filosofo Walter Benjamin sostenne che le tecniche con cui si realizzano le immagini delle fotografie consentono un'infinita replicabilità che può rideterminare lo stesso valore estetico delle opere d'arte, anch'esse potenzialmente riproducibili, destinate così a perdere quell'«aura» che ne caratterizzava l'unicità e l'autenticità. Nelle considerazioni di Benjamin, la macchina fotografica diventa un emblema della mercificazione della cultura di massa, occasione essa stessa per un'esplicita ed erronea condanna della tecnologia. Benjamin non è solo: in questa stessa prospettiva erano famose le teorie della Scuola di Francoforte, quella di Adorno, Horkheimer, Habermas, saccheggiate dal ribellismo sessantottino, usate contro l'imbarbarimento della civiltà che sarebbe stato provocato dalla tecnica. Teorie famose e dannose nelle loro semplificazioni popolari: come se l'uso di apparati tecnologici producesse di per sé il degrado della società capitalistica di massa.

Proprio la fotografia può invece dimostrare quali straordinari vertici artistici si possono raggiungere grazie a sofisticati apparati tecnologici: ricordiamo nomi come Henri Cartier-Bresson, Sebastião Salgado, Robert Capa, Gianni Berengo Gardin, Dorothea Lange, Richard Avedon, Helmut Newton, Vivian Maier... e quanti altri che non cito, e domandiamoci cosa abbiano in meno, per quanto riguarda la qualità artistica delle loro opere, rispetto a Picasso, Kandinsky, agli stessi Impressionisti. Sarebbero inferiori perché le loro foto consentono quella «riproducibilità tecnica» che elimina l'«aura», come direbbe Walter Benjamin? Non sarà invece che coloro che li ritengono inferiori sono condizionati dal pregiudizio umanistico secondo il quale tutto ciò che finisce nello spazio costruttivo della tecnica porta inevitabilmente al degrado culturale?

Inutile sottolineare che non si possa parlare di fotografia soltanto riferendoci a quei grandi fotografi prima menzionati: siamo devastati dal modesto o inappropriato utilizzo della tecnologia, dall'infantile narcisismo fotografico, quello dei selfie, quello del banale postare sui social immagini insignificanti nella qualità e strabordanti nella loro anonima quantità. Ma, proprio come quel pregiudizio umanistico ci faceva riflettere sulla necessità di rifiutarlo, anche questa esaltazione collettiva per la riproduzione seriale delle immagini realizzata con i cellulari non può lasciarci indifferenti sull'uso perverso a cui ci può portare la tecnologia.

Questa complessità - positiva e negativa - della tecnica era stata compresa già alla fine del XIX secolo dal filosofo tedesco Friedrich Nietzsche. Se in una società, sosteneva, si annullano con un infelice sentimento nichilista i valori tradizionali che regolano la convivenza (si tratta del tema della «morte di Dio»), è inevitabile che si faccia strada la volontà di potenza che esercita il suo dominio proprio attraverso la tecnologia. Essa, perciò, può essere vuota di ogni significato, quindi funzionale al potere, al controllo e alla manipolazione delle coscienze, oppure in essa si possono trovare quegli stessi valori amati da Nietzsche: la creatività, la vitalità, il coraggio dell'immaginazione.

Più di un secolo fa il filosofo aveva dunque compreso quale grande potere avesse la tecnologia sia per la sua capacità di degradare le coscienze, di devastare e manipolare la cultura, sia, al contrario, per la sua straordinaria possibilità di sollecitare energie creative, di aprire nuovi spazi all'invenzione artistica.

Il fascino della fotografia è anche in questa sua doppiezza che, se da un lato esalta l'infantile narcisismo dei selfie (e di tutto ciò che ne deriva) con le sue immagini superficiali, mercificate, standardizzate, dall'altro sfida il divenire del tempo, fermando in un Istante il fluire della vita per creare un'immagine con cui interpretare il mondo e coglierne il significato profondo oltre la semplice apparenza e al di là della presunta, illusoria oggettività.

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