"Non esistono Stati che possano resistere senza forze militari"

Lo storico Marco Mondini, autore di "Il ritorno della guerra" racconta il percorso verso la difesa comune

"Non esistono Stati che possano resistere senza forze militari"

Le nazioni europee, mettendo nel conto anche la Gran Bretagna nonostante la Brexit, sono rimaste spiazzate dalle mosse dell'amministrazione Usa rispetto all'Ucraina. In effetti tra alti e bassi, crisi e lisi, sono decenni, dall'epoca delle guerre jugoslave, che le amministrazioni statunitensi minacciano di lasciare l'Europa occidentale più sola nel gestire il tema della deterrenza militare. Trump però ha accelerato enormemente il processo. Invece il tema della difesa comune europea è sempre stato portato avanti con lentezza e litigiosità incomprensibili. Ora però il tutto rischia di trasformarsi in una corsa a perdifiato per non essere tagliati del tutto fuori dalle trattative relative al destino di Kiev e per non trovarsi negli anni a seguitare a essere un continente disarmato. Abbiamo fatto una chiacchierata sul tema con Marco Mondini che insegna Storia dei conflitti e Storia contemporanea all'Università di Padova; ha pubblicato da pochissimo un saggio intitolato Il ritorno della guerra con Il Mulino. Tra gli altri suoi titoli: Dalla guerra alla pace. Retoriche e pratiche della smobilitazione nell'Italia del Novecento (Cierre) e La guerra italiana e Tutti giovani sui vent'anni (questi due volumi entrambi con Il Mulino).

Professor Mondini, partiamo dalla Storia. Esistono entità politiche rilevanti che siano riuscite a costruire questa loro rilevanza senza una forza militare di supporto?

«Noi potremmo citare come unico caso proprio l'Unione europea. Che però non è nata come forma-Stato, è nata un po' come un ircocervo, un'unione confederale con strategie economiche e che poi, per sottrazione di sovranità, si è evoluta in uno Stato confederale molto particolare. Ma, se ci astraiamo da questo, lo Stato moderno nasce proprio per l'organizzazione della guerra. Il feudalesimo entrò in crisi proprio per il costo della guerra con le armi da fuoco. Quindi in generale la risposta è no. Lo Stato visto in maniera weberiana nasce proprio come entità che ha il monopolio dell'uso della forza legittima. Vale all'interno, ma vale anche per le forze armate. Gli Stati storicamente nascono così. La forza legittima dello Stato in Europa è stata sempre garantita dalle forze armate. Post rivoluzione francese e americana lo Stato si costruisce sulla base della nazione in armi, il popolo che sottrae il monopolio della violenza al principe e la rivendica per sé. Per un abitante di qualsiasi Paese europeo o per un abitante degli Usa del XIX secolo era impossibile pensare al proprio Stato scollegandolo dalla potenza dell'organizzazione delle armi. La guerra è sempre stata l'alfa e l'omega degli Stati».

E allora, come siamo arrivati all'idea di una Ue molto economica e poco armata?

«Dopo il 1945 e ancora di più dopo gli anni Sessanta diventa molto pervasivo il filone di pensiero che potremmo definire, con un po' di semplificazione, pacifista che prevede la scomparsa o la forte riduzione delle organizzazioni militari come pilastro della vita pubblica. Gli analisti americani e gli storici europei, seppure con prospettive diverse, hanno chiamato questa età post eroica. È stato l'effetto di essere schiacciati da due superpotenze. Infatti questa categoria si applica soltanto all'Europa. Negli Usa di questo cambiamento c'è molto meno, in Urss non ce n'è traccia. Questo anche se in Europa si è continuato a spendere per le forze armate, per scelta politica la società, culturalmente e psicologicamente, si è distaccata dall'idea della possibilità di una guerra. Ora con l'Ucraina ci siamo dovuti scontrare con la realtà».

C'è uno Stato che può fare da traino in questo senso?

«Ci sono Stati che ambiscono a fare da traino. A Macron piacerebbe, nel solco di De Gaulle. Ma la situazione è fluida. Le potenze militari dopo il 1945 nel contesto europeo erano due, Francia e Gran Bretagna. Ora nel perimetro Ue resta soltanto la Francia, anche se in questo momento il Regno Unito torna ad essere coinvolto per ovvi motivi... La Germania ha attraversato decenni di disinvestimento militare, per vent'anni i fondi della Bundeswehr sono stati tagliati, con tantissimi danni, a partire dalla riduzione degli effettivi. Pensavano al massimo al peacekeeping. Ora però ha svoltato e i tedeschi sono il Paese europeo con il miglior piano di riarmo e riorganizzazione. Hanno un piano di emergenza nazionale di centinaia di pagine. Ma hanno bisogno di tempo. Non si deve nemmeno pensare all'Italia come a un Paese demilitarizzato. Abbiamo un budget ancora basso, e problemi di organico, siamo corti di 40-45mila unità, ma restiamo un attore con un suo potenziale. Poi ci sono nuovi attori. La Polonia punta a spendere il 5 per cento del Pil e sta costituendo una efficace forza corazzata. Insomma, non penso possa essere una cosa guidata da un solo Paese. E infatti alcune reti di comando legate alla European Defence Agency, di cui si parla poco, esistono già».

Ma, dal punto di vista pratico, al momento quali sono le tempistiche per avere una vera forza di reazione comune?

«Nella programmazione dell'Agenzia non è difficile vedere che si è passati dalla programmazione di lungo periodo all'urgenza. Il fine ultimo era da sempre diventare un attore nella contesa strategica globale. Gli statunitensi del resto avevano sottolineato più volte una volontà di disimpegno. Con Trump però tutto questo è precipitato in modo nefasto. Nel mezzo nessuno ha preso atto davvero del cambio di prospettiva di Putin, almeno sino alla sua prima invasione dell'Ucraina nel 2014. Ora l'Europa cerca un'efficienza operativa molto più immediata. Al momento abbiamo la pianificazione di una brigata di 5mila uomini di reazione rapida che dovrebbe essere operativa a brevissimo».

Serve anche un'interazione produttiva più stretta?

«È un argomento molto caro anche dall'ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, ora Presidente del comitato militare Nato. Il mondo dell'industria militare si sta muovendo parallelamente e a velocità maggiore delle istituzioni. Avere 27 bilanci della difesa non integrati rischia di portare allo spreco. Ora i grandi gruppi europei stanno muovendosi per integrarsi, è un fenomeno partito da mesi... Che sia sufficiente non è detto, ma è un passo in avanti. Bisogna rendersi conto che siamo di fronte alla necessità di mobilitare un'economia di guerra. Non è più un mondo post bellico.

Serve una deterrenza credibile, far finta di niente, come vorrebbe una fetta dell'opinione pubblica, è impossibile. È una questione di sopravvivenza. Il sogno della pace scontata è finito nel 2022, ora le democrazie liberali, devono sapersi difendere».

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