"Le nostre vite inventate fra le bugie sovietiche"

La scrittrice di origine ucraina racconta la vicenda del nonno, che si era sempre finto un eroe di guerra

"Le nostre vite inventate fra le bugie sovietiche"

«Nel 2002, la mia famiglia ha trovato una lettera del nonno al Kgb, che ci ha sconvolto: dimostrava che la storia che ci aveva raccontato a proposito del suo passato era un mito. Ho pensato che fosse una buona idea per un romanzo, ma ero troppo giovane: da un lato non ero ancora pronta per scriverlo; dall'altro, non mi sembrava importante un nuovo romanzo sulla Seconda guerra mondiale, non lo sentivo come qualcosa di urgente». Sasha Vasilyuk è di origini ucraine, ha studiato in Italia e da anni vive e lavora (come giornalista) a Los Angeles. Il nonno di cui parla è Efim, il protagonista di Il vento è un impostore (Garzanti, pagg. 382, euro 18): ebreo, soldato dell'Armata Rossa durante la Seconda guerra mondiale, era stato sempre considerato dalla famiglia un eroe, uno che «aveva combattuto durante l'intera guerra, dal primo giorno fino a Berlino». Solo che la realtà era un'altra: al momento dell'invasione nazista, Efim era stato fatto prigioniero, aveva trascorso anni fra campi di concentramento e lavori forzati, era incredibilmente sopravvissuto nonostante fosse ebreo e, infine, si era unito ai commilitoni nella marcia sulla capitale tedesca. Una verità scoperta dalla famiglia dopo decenni, per caso.

Sasha Vasilyuk, perché a un certo punto ha deciso di scrivere di suo nonno?

«Nel 2014 tutto è cambiato. Era già cominciata la guerra nel Donbass. Poi nel 2016 ho visto quanto fosse trasformata Donetsk, la città della mia famiglia e dei miei nonni, dove io mi recavo ogni estate. C'erano dappertutto segni della Seconda guerra mondiale».

In che senso?

«La Seconda guerra mondiale è utilizzata come propaganda dai russi, per giustificare questa nuova guerra. Così ho pensato di scrivere un romanzo che cominciasse durante la Seconda guerra mondiale e finisse con il conflitto attuale: e questo sì, mi è sembrato molto urgente».

Perché è così importante la Seconda guerra mondiale, che fra l'altro in Unione Sovietica ha sempre avuto un nome diverso, la «grande guerra patriottica»?

«È legata a diversi aspetti della propaganda. Innanzitutto, Putin è un figlio della guerra: per lui, come per tanti altri in quella parte di mondo, è molto importante, è una trama enorme... Però, soprattutto negli ultimi dieci anni, Putin ha preso questa trama e l'ha trasformata in un culto: perché è facile da sfruttare, è qualcosa che evoca molte emozioni e contribuisce alla sua causa. E poi tanti protagonisti sono morti, perciò quasi nessuno può contraddire la sua interpretazione».

Quale interpretazione?

«Insiste sul fatto che gli ucraini fossero governati dai nazisti e che debba di nuovo salvare le persone da questo governo. Prende un pezzo vero di storia - sì, in Ucraina c'erano dei collaborazionisti, ma erano una minoranza della popolazione - e lo trasforma in una gigantesca bugia. Così funziona...».

Suo nonno raccontò bugie per tutta la vita. Perché?

«Il governo di Stalin considerava i prigionieri di guerra, come mio nonno, dei nemici del popolo: i loro passaporti erano marchiati, così che tutti potessero vedere che erano persone di cui non bisognava fidarsi, o che non dovevano ottenere certi benefici o posti di lavoro. E lo stesso valeva per coloro che avevano vissuto nell'Ucraina occupata e per i civili deportati in Germania ai lavori forzati: milioni di persone, considerati cittadini di seconda classe, costretti dal governo e dalla società ad avere paura, perché non avevano combattuto per la patria sovietica contro i nazisti. Da bambina sentivo questa espressione: non hanno partecipato alla guerra».

Che cosa fece il regime?

«La loro esistenza fu nascosta. Si fece in modo che queste persone provassero vergogna e timore: per questo la maggior parte di loro rimase in silenzio, come mio nonno. Nessuno raccontava mai quello che era successo davvero durante la Seconda guerra mondiale o che cosa fosse stata veramente la carestia degli anni Trenta in Ucraina».

E oggi?

«Tutte le trame del passato sovietico sono scomparse, così le nuove generazioni non sanno nulla. C'è un enorme vuoto di informazione e di verità e Putin lo sfrutta, riempiendolo di propaganda».

La bugia è una costante della storia sovietica?

«Come tutti i regimi totalitari, l'Unione Sovietica ha prosperato sulla paura e, perciò, sulle bugie: il governo mente alla gente e spinge la gente a mentire al governo e a mentirsi l'un l'altro, perché tutti sono spaventati; la verità non è un'opzione. Tutti conducevano una doppia vita: una in pubblico e una in privato. Il risultato di una società del genere è che le persone ignorano la loro storia e possono facilmente ripetere certi errori del passato, perché non hanno imparato nulla da esso».

L'Urss però è finita.

«Ma quando si è disgregata tutti hanno semplicemente tirato avanti, anziché fare i conti con il passato; così si sono ripetuti gli stessi errori».

Nel romanzo, la lingua ucraina letteraria viene contrapposta al gergo proletario sovietico. Esistevano più lingue?

«Se si leggono i grandi scrittori russi, prima del comunismo, il loro linguaggio evoca un'epoca di intellettuali, di dibattito a livello europeo. La lingua cambia con i diversi governi: durante l'Urss diventa più comune, banale e nasce una parlata sovietica fatta di professioni, abbreviazioni, titoli che si ritrova anche nella letteratura sovietica del Novecento. Poi si trasforma ancora: dal 1996, quando ho lasciato l'Ucraina, sono tornata ogni anno, eppure ormai stento a capire una conversazione. In meno di vent'anni la lingua è diventata irriconoscibile».

Mentire ha un prezzo?

«Sono sempre molto curiosa di capire perché manteniamo dei segreti o raccontiamo bugie alle persone che amiamo. Diciamo che sia per proteggere gli altri, ma non è per proteggere noi stessi? Mio nonno è un buon esempio: non so come si sentisse davvero, abbiamo solo ritrovato una lettera scritta al Kgb e non sappiamo neanche se il suo contenuto sia vero... Era un uomo divertente, amorevole, che non sembrava soffrire, e invece si è tenuto questo peso immenso dentro, per tutta la vita. Per me è stato sconvolgente scoprirlo».

Da giovane però aspirava davvero a essere un eroe di guerra?

«Il nonno non parlava molto della guerra, ma si sapeva che era entrato a Berlino e questo comportava che fosse un eroe di guerra, perché così tanti erano morti... Era raro, per un soldato, avere combattuto dall'inizio della guerra ed essere sopravvissuto per quattro anni. Raccontava anche di avere ricevuto delle medaglie, ma che gli fossero state rubate sul treno di ritorno. Ecco, questo era il mito, nella mia famiglia».

Nient'altro?

«Solo una volta il nonno mi aveva raccontato di aver mangiato una cipolla. Da bambina questo non mi colpì, ma oggi comprendo come fosse davvero disperato e affamato».

Il passato si può cancellare?

«No,

non si può. La società sovietica ci ha provato; ma, secondo molti, l'invasione dell'Ucraina è la conseguenza del non avere fatto i conti con il passato, come ha fatto la Germania. Puoi anche ignorare la Storia, ma ritorna».

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