Odissea di un ragazzo afghano che non cacciava aquiloni

Fabio Geda racconta il suo romanzo intervista che ha per protagonista Enaiatollah, un bambino fuggito a dieci anni dall'inferno dei talebani

Matteo Sacchi
È un piccolo caso editoriale, di quelli di cui si chiacchiererà all'infinito agli stand del Salone del libro (dove saranno presenti gli autori, domenica 16 maggio, ore 10,30, Caffè Letterario). Un romanzo-biografia, o meglio un romanzo intervista, che ha scalato le classifiche di vendita (ora è al secondo posto) armato di una prosa semplice, di una storia stranamente sospesa tra l'incubo e la fiaba. Si intitola Nel mare ci sono i coccodrilli (B.C.Dalai editore, pagg. 156, euro 16) e racconta le vicende di Enaiatollah Akbari, un ragazzino afghano che è riuscito ad arrivare in Europa dopo un viaggio clandestino durato cinque anni. L'odissea di questo profugo (che ora ha più o meno ventun anni) raccolta dallo scrittore Fabio Geda potrebbe essere riassunta così. Enaiatollah è membro dell'etnia Azari, da sempre considerata da talebani e pashtun carne da macello. Suo padre viene ucciso dai banditi mentre è obbligato a guidare un camion carico di merci dei pashtun. Quelli trovano del tutto naturale prendersi il ragazzino come schiavo in cambio della merce perduta. La madre, allora, per salvarlo si dà alla fuga con Enaiatollah, che ha solo dieci anni, e lo porta in Pakistan, dove è costretta ad abbandonarlo per tornare nella sua valle ad occuparsi degli altri figli. Da allora il ragazzo, sporadicamente perseguitato dai fondamentalisti, vive facendo lo sguattero, il venditore ambulante, il muratore e qualsiasi altra professione gli capiti a tiro. Intanto passa illegalmente i confini (per lui che non è mai stato registrato all'anagrafe la legalità non può esistere), sino ad arrivare in Europa, dove viene adottato da una famiglia italiana.
Geda, dove ha conosciuto Enaiatollah?
«Ho conosciuto Enaiatollah tre anni fa, a una presentazione del mio primo romanzo, Per il resto del viaggio ho sparato agli indiani. L'avevano invitato per raccontare la sua storia vera come controcanto alla mia, che era di pura invenzione. Lui narrava queste vicende incredibili, a tratti tragiche, con un tono leggero, ironico e con uno sguardo teso al futuro che mi sono sembrati eccezionali».
Come si spiega che un ragazzino sia riuscito a sopravvivere ad una vicenda del genere mantenendo la gioia di vivere?
«Ho a lungo lavorato come educatore e c'è in psicologia un termine specifico "resilienza". Indica la capacità di non spezzarsi sotto i colpi della vita. Per fortuna i ragazzi sono più resilienti degli adulti, sono più capaci di ricostruirsi una vita. E i ragazzi afghani in questo sono eccezionali. Ne ho conosciuti molti con un'intelligenza spiccatissima, con grandi capacità, peccato gli vengano tarpate...».
Enaiatollah insiste moltissimo sui danni prodotti dai fondamentalisti islamici...
«Ha visto i Talebani uccidere il suo maestro di scuola, li ha visti cercare di sradicare la sua cultura, non lo hanno lasciato vivere nella sua terra... Una delle cose che tiene di più a dire, a raccontare è che non tutti gli afghani sono talebani, che molti afghani sono le prime vittime di quella oppressione...».
Eppure nel libro non manifesta mai sentimenti di odio... Anzi, prova gratitudine anche per persone che, nella nostra ottica, sono sfruttatori del lavoro minorile o mercanti di uomini...
«Quando hai da dieci a quindici anni, sei sperduto e vuoi sopravvivere devi avere un punto di vista così, positivo! Lui ha tirato fuori il meglio dalla sua esperienza. Anche leggendo e conoscendo i fatti è difficile rendersi conto di quello che può aver provato...».
La forma narrativa che avete usato è asciuttissima e molto semplice. Perché?
«Ho scelto questa forma perché volevo che il libro rispettasse la memoria di Enaiatollah, volevo una forma espressiva che ricordasse il racconto orale, che fosse comprensibile da tutti, soprattutto dai ragazzi... Abbiamo scelto di non gonfiare il racconto, l'abbiamo tenuto sotto vuoto. Eppure se ne poteva pompare di aria e farlo diventare una specie di Cacciatore di aquiloni...».
Il vostro libro racconta una storia di salvezza. Che mi dice invece dei sommersi?
«Sono in pochi quelli che ce la fanno, la salvezza in questo caso è anche dovuta ad una famiglia italiana veramente meravigliosa. Molti non sono così fortunati, vengono risucchiati da un mondo delinquenziale».
Anche la madre di Enaiatollah ha dato un contributo fondamentale...


«Ha dovuto abbandonarlo ma gli ha lasciato in eredità tre precetti: "Non usare droghe, non usare armi per fare del male a un altro essere umano, non rubare". Queste parole erano tutto quello che quella donna poteva lasciargli. Ma lo hanno salvato».

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