Ognuno può scrivere il suo "Quinto evangelio"

Lo scrittore inseguiva "l'Apocrifo degli Apocrifi". E lo raggiunse dopo una gimkana spirituale

Ognuno può scrivere il suo "Quinto evangelio"

Nel febbraio del 1975 Rusconi pubblicò un libro inclassificabile, inatteso, straordinario. S'intitolava Il quinto evangelio. L'autore, Mario Pomilio, originario di Orsogna, Chieti, aveva esordito vent'anni prima con L'uccello nella cupola; dieci anni prima aveva ottenuto il Campiello con La compromissione, romanzo intriso di torbidi politici e di tensioni esistenziali. Gli mancava il capolavoro. Compiva cinquantaquattro anni.

Pomilio aveva cominciato a scrivere Il quinto evangelio nel 1968, folgorato dalla lettura dei Vangeli «curata per Neri Pozza da Lisi, Alvaro, Valeri e Bontempelli». Intuì che la «lingua viva» degli scrittori aveva il dono di rinnovare quegli antichi, enigmatici testi, ripetuti a pappagallo in navate nebbiose d'incenso, facendoli feroci, neonati, «come se si trattasse di libri appena apparsi». Gli venne l'idea di inseguire il «quinto Vangelo», di tentare l'«Apocrifo degli Apocrifi... perpetuamente nascosto, il quale soggiace alle Scritture già note e di continuo ne modifica e ne amplifica il senso». Nel 1945, a Nag Hammadi, Egitto, era stata scoperta una vasta congerie di testi gnostici cristiani, tra cui l'abbagliante Vangelo di Tommaso.

A sigillare il progetto, un'architettura narrativa micidiale, da omicidio in camera chiusa. Il romanzo, infatti, è, di fatto, una lunga lettera inviata dal professor Peter Bergin a un ipotetico «Segretario della Pontificia Commissione Biblica» (tale «Rev. M.G.»), che raduna trent'anni di ricerche, vane, intorno al Quinto evangelio, il vangelo nascosto, che da due millenni trama di risorgere dalla coltre in cui è celato. Il lettore, così - impegnato nella quest come Bergin -, si trova a sfogliare manoscritti del '600, interrogatori del XIII secolo, leggende dell'Ottocento, inni sacri medioevali. La lettura è aspra perché i materiali, disparati, a spirale, sono spregiudicata invenzione di Pomilio; al lettore si chiede intelligenza, curiosità, estro - insomma, prestanza. Costellato di simboli e di segni - tra i collaboratori di Peter Bergin spicca tale Thomas Stearns, il cui nome adombra Eliot - Il quinto evangelio - forse il più grande, di certo il più eccentrico tra i romanzi italiani del secondo Novecento - obbliga a un'autentica gimkana dello spirito. Tra gli «affioramenti» del testo mega-sacro, a cui l'invisibilità conferisce un potere raddoppiato, segnalo «un graffito della chiesa rupestre della Buona Nuova a Massafra, presso Taranto», dell'XI secolo, che recita così: «ha detto Gesù nel quinto evangelio: Benedetti siete voi che mi cercaste nel deserto».

La consapevolezza di Pomilio, quell'esagerata intelligenza, rendono un libro analogo e di miglior sorte, Il nome della rosa, poco più che un trito balocco, un biberon in bocca al centauro. Il quinto evangelio non teme confronto con i più arditi racconti di Borges. Ad ogni modo: del romanzo si parlò a tratti; scandalizzò i lettori di romanzi scandalistici e i critici in divisa marxista. Silenziosamente, fu tradotto qua e là; in Francia, nel '77, ottenne il Prix du Meilleur livre étranger, che l'anno prima era andato a Ernesto Sabato e l'anno prima ancora a Leonardo Sciascia. Qualcuno disse che Pomilio era il nuovo Manzoni. Lo scrittore prese l'asserzione sul serio e scrisse - secondo i moduli che aveva già sperimentato, con maggior facondia, nel Quinto evangelio - Il Natale del 1833, con cui nel 1983 vinse lo Strega. L'anno dopo fu eletto al Parlamento europeo, con la casacca della Democrazia cristiana - di fronte a lui, nei ranghi del Pci, gareggiava Moravia.

Il quinto evangelio - ristampato con quieta costanza da Bompiani, un'«edizione definitiva» fu stampata da L'orma nel 2015, con saggio di Gabriele Frasca - ha come compito non secondario quello di farci leggere i quattro evangelisti. La dico come viene: i Vangeli, per genio del genere ed esuberanza nella reticenza, sono, in quartetto, il capolavoro della letteratura occidentale. Lo diceva anche Lev Tolstoj, letteralmente ossessionato dalla sapienza letteraria degli evangelisti. Come le icone ribaltano la prospettiva della rappresentazione artistica, così i Vangeli ribaltano quella narrativa: il lettore è incardinato nella sequela Christi - è, al contempo, il discepolo prediletto e il traditore, Marta, Maria e Pilato, la corona di spine e il nato cieco -: ciò che ricava dalla lettura non è una morale (per quella bastano gli stoici e gli epicurei, il formidabile Seneca, ad esempio), ma la cittadinanza nella contraddizione. Il personaggio Gesù - d'inaudita audacia: dietro a lui, come mere ombre, vanno Amleto e Don Chisciotte, il principe Mykin e il dottor Zivago, il Virgilio di Hermann Broch, l'Ismaele di Moby Dick e l'io lirico di Whitman - non si fa censire in aggettivi: la sua natura è sfuggente, in oltranza all'uomo; alterna la misericordia - l'amore ingiusto, viscerale, spappolato - alla ferocia; predilige i deserti, ha memoria dei miseri, brandisce la morte come un fiore. A differenza di altri testi, è impossibile ricordare la trama dei Vangeli: ad ogni lettura suppurano nuovi sensi e supposizioni. I Vangeli sono un libro labirintico e infinito perché infimo e infido: rispetto alla Torah e al Corano, il Vangelo non è libro rivelato, ma latitante al linguaggio (scritto in un greco mai pronunciato da Gesù, in ibrido gergo, da banditi); è un libro di senzadio, di esuli al tempio. In questa nativa debolezza è il suo fascino: intoccabile, il Vangelo è da tutti toccato - chiede strazio.

Un buon modo per riconciliarci con i Vangeli, fuori dai turpiloqui del mondo e dal torpore d'aia della canonica, è leggerli nella versione di Giancarlo Gaeta edita da Quodlibet (pagg. 778, euro 34). La vera novità è che tale versione non diverge poi di molto dalla più recente traduzione della Cei. Ignifuga al livore degli esegeti, la potenza sigillata dei Vangeli è lì, in pericopi che mettono in pericolo e sarchiano di continuo il nostro cuore in stracci. Ciascuno ha i propri passi prediletti, se ne lasci avvolgere, in deliquio: io amo il Gesù che vagabonda nel deserto, «messo alla prova dal Satana; e stava con le fiere, e gli angeli lo servivano» (Mc 1, 13). Il Figlio dell'uomo parla una lingua che oscilla tra la bestia e il celeste: una lingua chiamata Eden, chiamata Adamo, aliena all'umanità perché integralmente umana. Che l'evangelista Marco termini, in origine, il suo resoconto con la «paura» delle donne che hanno visto il sepolcro vuoto e «un giovane... avvolto in una stola candida», assegna a quel testo un livore che sa di oro, l'avventatezza dei fuggiaschi.

Non occorre essere credenti per leggere il Vangelo, lettura che arde, appropriata a chi

non crede. Il quinto evangelio è quello che il lettore si costruisce da sé, emerso dalla lettura dei quattro; esiste un Vangelo per ogni occhio che si addentra nei Vangeli. Anche per questo, il Vangelo è il libro assoluto.

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