
Di quella che anni fa, in un bel libro, Benedetta Craveri definì la «civiltà della conversazione» del XVIII secolo, facevano parte il libertinage, che non ha bisogno di traduzione, e il marivaudage, dal drammaturgo Marivaux che l'aveva tenuto a battesimo, ovvero la galanteria scherzosa, il divertimento come schermaglia intellettuale e i giochi di parole come schermo sentimentale. A ciò si aggiungevano gli scambi epistolari, dove si parlava di politica senza prenderla troppo sul serio, di guerra e di amore come se fossero sinonimi, si facevano pettegolezzi che spesso erano rancori più o meno mascherati. Soprattutto però si scrivevano versi, la poesia come riconoscimento ultimo e finale di un modello comportamentale, aristocratico, va da sé, e tuttavia democratico, nel senso che principi e sovrani, prelati e militari, uomini di corte e ninfe più o meno egerie dei salotti femminili rimavano e verseggiavano con passione e con diletto all'interno di un ordine sociale che si riteneva immutabile, ma che al termine di quel Millesettecento sarebbe andato per sempre in frantumi. Come osserverà un protagonista dell'epoca, «senza rimpianti per il passato e senza preoccupazioni per l'avvenire, camminavamo gioiosi su un tappeto di fiori che nascondeva un abisso».
Ha ragione dunque Antonio Trampus, nella sua introduzione a Obbedisco all'amore (De Piante editore, a cura di Francesca Boldrini e Stefano Feroci, 222 pagine, 22 euro), la silloge delle poesie di Giacomo Casanova fatta da Piero Chiara e finora rimasta inedita, a osservare come «nel Settecento furono in fondo un po' tutti poeti o, per usare un'espressione oggi meno alla moda, rimatori. L'improvvisazione poetica è un fenomeno esteso e sfuggente nell'età dei Lumi, del quale Casanova fu interprete e testimone».
Lo fu, a suo modo, naturalmente, e in linea con una vita che era stata insieme avventurosa e tortuosa, irregolare, colma di inciampi e imprevisti, arresti, in senso stretto e in senso lato, e ripartenze, una vita poi raccontata in francese, perché il francese, lingua franca e insieme lingua colta per eccellenza, fu un tutt'uno con il Settecento, e tuttavia un francese orgogliosamente italiano, impuro insomma, per non parlare di una fedeltà mai abbandonata per quello che era il dialetto veneziano, vera e propria lingua dell'anima, carnale, dolce, delicata.
Molto ben curato, Obbedisco all'amore è anche un omaggio a Piero Chiara, che al Casanova poeta aveva cominciato a pensare già alla fine degli anni Sessanta del Novecento e intorno al quale, sino a quando la salute non lo abbandonò, accumulò schede e testi di riferimento, riproduzioni microfilmate di documenti originali, eccetera.
Si diceva prima che la poesia di Casanova ne rispecchiava la vita e infatti ci sono le satire, i sonetti laudativi e gli applausi poetici, i ditirambi, le canzoni e le odi e insomma tutto l'armamentario che un gentiluomo dell'epoca -e Casanova tale era, sia pure sui generis- poteva e doveva sfoggiare per fare colpo, chiedere udienza, ricambiare cortesie, difendere un principio e/o una persona, offendere, se e quando era il caso... E, naturalmente, la poesia era anche per lui un'arma di seduzione, un divertissement erotico, come prova un licenzioso quanto delizioso botta e risposta con la sua amante monaca M.M., originato dal furto di una scatoletta di preservativi trovata da lui sulla scrivania di lei, e che lasciamo al lettore il piacere di scoprire.
Va detto che più il tempo passa e più l'unicità di Casanova non fa che confermarsi. Come notò, ancora negli anni Venti del secolo scorso Stefan Zweig, in quella che resta una delle migliori biografie su di lui, «di rado i poeti e i romanzieri hanno una biografia ed egualmente di rado gli uomini che ne hanno una sono capaci di raccontarla. Casanova rappresenta una meravigliosa eccezione». L'eccezionalità spiega, almeno in parte, l'interesse mai sopito per chi in vita e post mortem non ha mai cessato di far parlare di sé, interesse legato anche al mistero che lo circonda. Per esempio, perché in quel Settecento che fu un secolo di avventurieri e di libertini, solo Casanova ne è divenuto l'emblema e il simbolo? Perché, ancora vivente, le sue memorie erano oggetto di interesse, e un decennio dopo la morte il loro manoscritto terreno di caccia, la sua pubblicazione, infine, per quanto censurata, storpiata e maltradotta nelle prime edizioni, l'inizio di un interesse letterario senza precedenti, Stendhal, Heine, Schnitzler, Hesse, Marai?
Va detto altresì che a fare di Casanova, un Casanova non fu la sua bellezza, ma la sua atipicità: era sì un giovane fisicamente prestante, ma dal naso troppo pronunciato, dal colorito troppo scuro, dagli occhi lievemente sporgenti... In breve, era fuori norma rispetto a un secolo e a un mondo dove il corteggiamento, la seduzione e l'ars amandi rientravano, come abbiamo accennato all'inizio, nei canoni della levità, della delicatezza, delle ciprie, dei belletti e dei balletti... Era un outsider insomma rispetto al suo tempo e questo suo essere al di fuori della norma non ne fa il rappresentante per eccellenza, ma, semmai, un soggetto per amatori, amatrici, nel suo caso, amanti di un genere particolare, elitario. Del resto, il numero delle sue conquiste sta lì a confermarlo. I casanovisti che si sono impegnati a numerarle sono arrivati a contarne 116, che in quarant'anni d vita dedicata all'altro sesso non sono poi un numero straordinario. Il catalogo del Don Giovanni mozartiano recita alla sola voce Spagna «già mille e tre» e sarà pure un'opera di fantasia, ma stava a indicare lo Spirito del tempo...
Casanova, dunque, fu qualcosa di completamente diverso da un semplice seduttore, un semplice avventuriero, un semplice truffatore. Fu, come ha notato un altro suo grande biografo, Luigi Bàccolo, «un uomo anteriore ai dieci comandamenti», nel senso di un'amoralità che senza rifugiarsi in un razionalismo d'accatto regola la sua partita con l'al di là accettandone l'ipotesi, purché però non influisca sull'al di qua... E del resto Casanova faceva parte di una società che si sarebbe potuta definire della Forma, un codice comportamentale che non contemplava una democratica dissoluzione dell'ordine costituito. Come ogni vero libertario, Casanova era aristocratico: sapeva che la trasgressione cosciente dei pochi si trasformava nell'eccesso incosciente dei molti. Come ogni vero anarchico, era un uomo d'ordine: la punizione era un male necessario, antidoto per chi non sa regolarsi da sé. Come ogni vero libertino, era un moralista: le passioni andavano guidate, a chi non era in grado restava solo la depravazione.
Nel suo obbedire all'amore, poetico o meno che fosse, c'era in filigrana un obbedire alla vita, perché «per l'uomo pensante, niente è più caro della vita... E però il più voluttuoso è colui che esercita al meglio la difficilissima arte di farla correre veloce. Non perché sia più breve, ma perché il piacere ne renda insensibile il corso».
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