Kamala candidata è un colpo di Stato (firmato Obama)

Il passaggio di consegne tra Biden e Harris sembra essere stato indolore. Ma in realtà dietro ci sono le macchinazioni di un partito e un ex presidente rimasto molto influente

Kamala candidata è un colpo di Stato (firmato Obama)

La ragione per cui ancora utilizziamo l’espressione francese coup d’État - colpo di Stato - è perché nessun’altra descrive così bene l’improvvisa rimozione di un vecchio sovrano compiuta con manovre segrete dietro le quinte e seguita dalla presentazione di un «prescelto» come unico sostituto possibile. Sostituto che si dà il caso sia dotato di tutte le virtù possibili. Ovviamente Kamala Harris non è un nuovo dittatore perché deve ancora affrontare le elezioni.
Tuttavia sono manovre segrete quelle che l’hanno incoronata come candidata del suo Partito Democratico, una posizione che si suppone venga occupata attraverso elezioni primarie per conquistare i delegati su e giù per il Paese, prima che tutti i delegati si accordino sul prescelto alla convention del partito.

Di sicuro la sua vicepresidenza non è stata sufficiente a garantirle la candidatura. Tutt’altro, visti i poco promettenti risultati elettorali garantiti da quella carica così particolare, che John Nance Garner, vicepresidente di Franklin D. Roosevelt dal 1933 al 1941, liquidò sprezzantemente e non a torto: «Non vale un secchio di sputo caldo». Infatti in tutta la storia americana solo sette vicepresidenti sono stati eletti alla presidenza (otto hanno sostituito un presidente morto). Ciò riflette il ruolo abituale dei vicepresidenti: non si tratta di presidenti in attesa, ma di politici utili come figure puramente simboliche, scelte per attirare gli elettori che il presidente non può attirare con le sue politiche. Nel caso di Garner, questi elettori erano i bravi ragazzi del Texas e del Sud che altrimenti non avrebbero votato per un altoborghese di New York, peraltro liberal di sinistra.
Nel caso di Biden, egli aveva ritenuto necessario annunciare che il suo vicepresidente sarebbe stato una donna senza aver prima selezionato un candidato plausibile (anche se la sua collega senatrice Elizabeth Warren si sentiva sicura della nomina). La svolta era avvenuta quando il suo più importante sostenitore nella difficile stagione delle primarie (aveva perso malamente in Iowa, New Hampshire e Nevada quando il più importante politico nero d'America, James Clyburn, era venuto in suo soccorso) aveva preteso che la donna fosse nera.

Per Biden, la sua collega senatrice Harris era la scelta più ovvia perché era ancora nuova al Senato e aveva poco potere proprio. Dopo aver scelto Harris, Biden ha continuato a ignorarla, proprio come ogni presidente prima di lui aveva ignorato il proprio vicepresidente, tanto che solo di recente ad Harris è stato affidato un compito preciso: fermare l'imbarazzante e politicamente disastrosa ondata di immigrati al confine con il Messico, iniziata quando le misure di controllo piuttosto efficaci di Trump erano state revocate nei primissimi giorni della presidenza Biden. Quello che ne è seguito è stato altrettanto imbarazzante: dopo essere stata definita «Zar delle frontiere», Harris non è rimasta a Washington a lavorare attraverso la burocrazia per riattivare i controlli che avevano funzionato così bene sotto Trump, ma è andata in Guatemala il 7 giugno 2021 per rivolgere un accorato appello agli aspiranti immigrati: «Non venite! Non venite!». Naturalmente nulla è cambiato alle frontiere, che hanno continuato ad essere prese d’assalto, fino a quando Biden ha riattivato le misure di Trump all’approssimarsi delle elezioni, quando i numeri sono debitamente diminuiti.

Ecco perché solo poco tempo fa gli stessi media che ora sono pieni di gioioso entusiasmo per la candidatura di Kamala Harris ospitavano i gravi avvertimenti di ansiosi guru democratici, i cui editoriali esortavano Biden a sostituirla rapidamente. Non sorprende che Biden abbia ignorato questi suggerimenti: mentre la sua forza fisica tramontava, Harris ha guadagnato un nuovo importante ruolo alla Casa Bianca: è diventata la migliore ragione possibile per mantenere Biden alla presidenza. Quello che è successo dopo non sarebbe potuto accadere se non ci fosse stata una singola mano registica dietro le quinte: le stesse voci, da Nancy Pelosi in giù, che avevano appena assicurato al popolo americano che Biden era pienamente in forma mentalmente e fisicamente per gestire la Casa Bianca, vincere le prossime elezioni e governare per altri 4 anni, improvvisamente hanno sostenuto l’esatto contrario: che Biden avrebbe dovuto annunciare immediatamente il suo ritiro dalle elezioni. Non è un mistero chi abbia invertito la rotta: Barack Hussein Obama II, l’unico presidente americano degli ultimi tempi che dopo aver lasciato la Casa Bianca ha continuato a vivere a Washington DC, di certo non per pescare sul fiume Potomac...

Con la Casa Bianca di Biden composta da funzionari che lo hanno servito per otto anni (i fedelissimi di Biden nei suoi decenni al Senato sono tutti morti o in pensione), Obama poteva influenzare e ha influenzato e persino controllato direttamente la politica, come ha certamente fatto nel caso dell’Iran tramite Roger Malley (ora rimosso per questioni di sicurezza): un figlio di estremisti antiamericani autoesiliatosi a Parigi, che ha fatto rispettare il mandato di Obama secondo cui gli Stati Uniti non avrebbero mai dovuto colpire l’Iran, nemmeno se Teheran avesse attaccato le truppe statunitensi in Irak e Siria. Ma a parte l’Iran, Obama era molto più concentrato sul potere che sulla politica, e quando ha visto Biden vacillare e poi cadere nel dibattito con Trump, ha avviato il processo che avrebbe rapidamente portato all’abbandono della campagna di rielezione di Biden, anche se non aveva una soluzione per il problema di Kamala Harris.
Obama non aveva assolutamente voluto Harris come vice, temendo soprattutto che sarebbe stata attaccata per la sua carriera a San Francisco, lanciata dal sindaco (più vecchio di decenni) allora suo partner sentimentale. Quando Biden si era impuntato sulla scelta di una donna alla vicepresidenza, poi ulteriormente specificata come nera, Obama aveva proposto l’ex consigliere per la sicurezza nazionale Susan Rice. Ma neppure il fedele Biden poteva accettarlo: nei suoi otto anni di vicepresidenza, Biden ha spesso cercato di influenzare la politica estera solo per essere scavalcato dagli incaricati di Obama, che ne sapevano molto meno di lui dopo decenni di attento servizio nella Commissione per le Relazioni Estere del Senato - e nessuno era più arrogante con lui di Susan Rice. Il rifiuto di Biden di nominare Rice sua vice è il motivo per cui ora Obama poteva garantire il ritiro di Biden, ma non la sua sostituzione con il proprio candidato.

Poiché Kamala Harris non ha vinto nemmeno un’elezione primaria e il suo mandato di vicepresidente è trascorso nel silenzio fino alla débâcle migratoria, è possibile che quando i delegati democratici si riuniranno a Chicago l’evento non si svolgerà come un congresso del Partito comunista cinese e uno, due o più delegati chiederanno una scelta.

E poiché tra i governatori democratici ci sono candidati pronti e in attesa, otto dei quali donne, non è necessario che la convention si trasformi in caos, ma piuttosto in un’elezione democratica invece che in un colpo di Stato.

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