Un gruzzoletto di 300-350 euro al mese per una platea di almeno 10 milioni di lavoratori con redditi bassi e medio-bassi non risolverà la vita, ma nel periodo storico del ritorno dell'inflazione e nell'anno della ripresa dei vincoli del patto di stabilità, non è un risultato di poco conto. Eppure per Maurizio Landini la colpa più grave del governo Meloni è non fare niente sui salari e quindi per i lavoratori, riservando le proprie attenzioni ad altre categorie, considerate più agiate e meno bisognose.
È questa la principale motivazione alla base dello sciopero generale di venerdì scorso legato alla manovra finanziaria varata dall'esecutivo: «La questione salariale è il centro dello sciopero del 29 novembre», ha ribadito il segretario generale della Cgil, che già pensa alle prossime agitazioni, una quindicina solo a dicembre tra le quali un altro «venerdì generale», per il giorno 13. Ma una posizione di questo tipo, presa sui salari e sulle fasce più deboli dei lavoratori, alla luce di qualche consuntivo su quello che è successo nel mondo del lavoro da due anni a questa parte, appare sempre più ideologica. E in definitiva anche isolata, vista la distanza sempre maggiore con la Cisl, il secondo grande sindacato di massa dei lavoratori italiani.
Partiamo dai contratti nazionali di lavoro, quelli siglati dalle rappresentanze delle parti e validi per le intere categorie. Il «non fare niente per i salari» non sembra molto adeguato a una situazione in cui, con questo governo a Palazzo Chigi, nei soli ultimi 12 mesi sono stati rinnovati contratti nazionali per 8 milioni di lavoratori dipendenti, con un aumento medio di 220 euro mensili nell'arco del triennio di vigenza, prevedendo inoltre aumenti sui trattamenti economici complessivi (Tec).
Se si aggiunge il benefico, fiscale e contributivo, del taglio del cuneo, che il governo Meloni ha implementato sia nel 2024 sia con la manovra per il 2025 (elevandolo fino ai redditi inferiori ai 40mila euro), la cifra aumenta di circa altri 100 euro mensili: per precisione va detto che il calcolo medio sul 2025 non è facile da effettuare perché il governo ha trasformato il taglio in un bonus fiscale non omogeneo per le diverse fasce di reddito e carichi familiari. Si sa però che 18 milioni di persone avranno un introito aggiuntivo l'anno fino a 1.200 euro. E che la spesa pubblica dedicata complessivamente al lavoro è salita da 14 a 17 miliardi: non saranno tutti per la fascia che interessa Landini, ma che si tratti di risorse destinate a lavoratori con redditi da lavoro bassi e medi non è in discussione.
C'è poi un effetto occupazione da non dimenticare: quel mezzo milioni di posti di lavoro in più degli ultimi 12-18 mesi (e che possono variare di mese in mese, ma l'ordine di grandezza è quello) hanno portato maggiore stabilità e reddito. Non sono aumenti salariali, ma di certo non sono neanche il risultato di politiche economiche di un governo che non guardi all'occupazione. Non a caso oltre due terzi della manovra sono orientati al lavoro dipendente, pensionati, risorse per contratti pubblici. Tornando a questi, tra maggiori i rinnovi conclusi nel 2024 ci sono il settore del commercio (2,7 milioni di lavoratori), turismo ristorazione (1,3), i settori dell'artigianato (930mila), i postali (120mila).
Dopodiché altri contratti sono stati meno generosi: per Landini i 165 euro di aumento per le Funzioni Centrali del pubblico impiego sono pochi. E la Cgil - in minoranza - non ha firmato.
Reclamando un referendum che però non è previsto dalla legge. Un balzo del 6% è basso e non recupera l'inflazione cumulata. Giusto. Ma oltre a certi livelli le richieste diventano insostenibili e dunque velleitarie. Ma sempre buone se l'obiettivo è politico.
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