Giacomo Gobbato è un eroe. E per questo le prossime 52 righe rischiano di essere del tutto superflue, se non dannose. Ma di fronte all'etimologia dell'esempio che è l'eximère, il «trarsi fuori» dal comune, il suo gesto di ragazzo che nella società degli indifferenti si è rifiutato di girarsi dall'altra parte, rende difficile esimersi dal tentare un ragionamento per immaginare un migliore dei mondi possibili in cui una ragazza non sia più assalita da un rapinatore e un ventiseienne di Jesolo possa non morire per cercare di difenderla. E qui vien da dire che chiunque abbia passeggiato per le strade di Mestre, così come in molti altri centri e non solo del nostro Paese, quel marciapiede bagnato di sangue lo ha quantomeno immaginato, se non addirittura previsto. Perché è ormai troppo il degrado, insostenibile l'abbandono in cui vivono eserciti di stranieri, ingestibili i numeri delle persone che trasformano le loro difficoltà esistenziali in disagio psichico. E così, abbandonata anche da una sinistra insipiente (se non mascalzona) la favola bella di quelli approdati in Italia che non erano problemi, ma risorse alacremente impegnate a trovare il modo di pagarci le pensioni, resta la tentazione di chiedere e anzi implorare i governanti di occuparsi di questo esercito che si sta impossessando delle città. Dando per scontata, in questa pacata richiesta di aiuto da dare innanzitutto a loro (e di conseguenza anche a noi) l'accusa di essere fascisti, razzisti e quindi spietatamente disumani. Così come è capitato anche ieri. Perché la sorte ha voluto che l'eroe Giacomo Gobbato e l'amico ferito insieme a lui fossero attivisti del Centro Sociale Rivolta di Mestre. E questo non dovrebbe togliere, nè aggiungere una virgola al ragionamento, se non fosse che sono stati i loro stessi compagni del centro sociale a chiedere, anzi a esigere «di non essere usati da chi semina odio. C'è un colpevole. È una persona, una singola. Non importa dove sia nato o di che colore abbia la pelle. E tutto questo succede in una città abbandonata da anni a se stessa. Non accettiamo strumentalizzazioni. E non le accettiamo per Giacomo che sarà sempre con tutt* noi e per Sebastiano che è con il cuore a pezzi. A Giacomo, che nella sua giovane vita ha sempre lottato per una società inclusiva, multiculturale, antirazzista lo dobbiamo». Perché il colpevole non è «una persona singola» che su di sè non può portare tutto il peso di questo disastro.
E le parole sono emotivamente pregevoli, se non fossero pericolosamente viziate dalla tentazione di scambiare l'ideale con il reale, cedendo all'umano vizio di voltarsi dall'altra parte, rifiutato proprio dal loro amico. O compagno che proprio su questo altare ha sacrificato la vita.
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