Negli anni delle purghe staliniane, magistralmente raccontati da Anatolij Rybakov, la paura camminava sempre al fianco di ogni russo. Con la guerra in Ucraina sta succedendo di nuovo. È il terrore di scivolare in una nuova povertà, entrando a far parte di quel 13% di miserabili che già occupano i gradini più bassi della scala sociale. È l'angoscia di rivivere un passato ancora recente, quello dei primi anni Novanta contrappuntati dalla desolazione nei mercati rionali, spogli perfino dei generi di prima necessità e dallo spuntare, come tanti fiori del male, dei mercati neri. Lì c'era di tutto: bastava pagare in dollari. Agli sprovvisti di greenback non restava altro che il baratto, una forma di scambio primordiale che si allungava dai privati fino a quasi la metà delle transazioni industriali. Era il solo modo per sfuggire alla recessione provocata dalla stretta creditizia che, come un cappio, aveva soffocato il Paese.
Ora come allora, la Banca di Russia usa gli stessi strumenti sbagliati per rispondere alle sanzioni. Così, le code interminabili davanti ai bancomat di questi giorni per non restare intrappolati nel rublo, finiscono per essere la plastica rappresentazione di questo Paese tremendamente bipolare dal punto di vista economico. Dove, da una parte, il reddito annuo pro capite supera di un'unghia i 10mila dollari e, dall'altra, il 4,3% del Pil se ne va in spese militari. Così, come una tremenda nota dissonante, la gente si accalca davanti alle banche con in tasca carte di credito inutilizzabili dopo il blocco imposto da Visa e Mastercard, mentre la preoccupazione principale di molti oligarchi è un'altra: dirottare in tutta fretta i mega-yacht alle Maldive, un porto sicuro contro le prossime misure punitive contro i patrimoni a nove zeri. Tra questi, il «Clio» di Oleg Deripaska ha già lasciato le coste dello Sri Lanka da un paio di settimane per far rotta sull'isola dell'Oceano Indiano. Il miliardario alla guida di Basic Element, uno dei più grandi gruppi industriali russi, è tra i pochi ad aver detto niet al conflitto ucraino, ma non sembra disposto a farsi sequestrare il 73 metri per cui ha staccato un assegno da 65 milioni di dollari. Gli affetti più cari restano quelli nel portafoglio.
Se gli umori delle Borse estere non sono governabili (e ieri l'assedio di Kiev è costato allo Stoxx600 il 2,2% e a Milano il 4,1%, mentre Mosca è rimasta in lockdown) e le fortune personali in azioni rischiano quindi una liposuzione, c'è sempre una scappatoia. Tipo le criptovalute: ieri i Bitcoin hanno scavalcato i 40mila dollari, con un movimento talmente ascendente da far nascere il sospetto che il gran balzo sia stato alimentato dagli acquisti di oligarchi e società russe. Lo scopo, ovviamente, è quello di aggirare le sanzioni e portare a termine operazioni altrimenti vietate tramite i canali ufficiali. A differenza di quanto fatto dalla Cina nel settembre scorso con il blocco delle compravendite di monete virtuali per impedire fughe di capitali, il Cremlino lascia fare. Preferendo concentrarsi su come impedire agli investitori stranieri di lasciare il Paese. Un decreto è allo studio, ma già sono partiti gli ammonimenti: «Come insegna l'esperienza, è facile abbandonare un mercato, ma è molto più difficile tornare dove i concorrenti hanno acquisito una solida presenza», ha avvertito il primo ministro Mikhail Mishustin.
Insomma, chi lascia troverà poi porte solo chiuse (come potrebbe accadere ad Apple, che ieri ha deciso di fermare la vendita dei suoi prodotti in Russia). Una minaccia che dà la misura della sindrome da accerchiamento vissuta da Mosca. Il peso delle sanzioni è senza precedenti, a cominciare dall'impossibilità di vendere asset e valute ai Paesi occidentali. Resta da capire se la Russia giocherà la carta di accettare oro, di cui già detiene quasi 2.300 tonnellate, in cambio di petrolio.
E se, dopo essere stata estromessa dallo Swift (ad essere escluse sono sette banche fra le quali però non ci sono, almeno per ora, la Gazprombank e Sberbank, il più grande gruppo bancario russo), troverà riparo nel Cips, la versione cinese del circuito di pagamenti. Con un effetto collaterale potenzialmente devastante: minare il predominio del dollaro come valuta di riserva globale.
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