Mentre scrivo queste righe, ancora non conosco il nome della ragazza che è stata trovata morta impiccata nell'edificio cinque dell'università Iulm, dove anch'io insegno, nella stessa facoltà dove era iscritta. Potrei dunque essere stato suo insegnante, proprio nello scorso semestre, e chi legge può ben capire la mia angoscia. Sembra che nella lettera che è stata trovata la ragazza parli del suo fallimento, tanto negli studi come nella vita, ma alle lettere dei suicidi è lecito non credere: i bilanci che presentano sono perlopiù sommari e insufficienti. Ma il gesto compiuto va molto al di là delle parole scritte: qui sta la tragedia. Puoi tirar fuori tutte le motivazioni che vuoi, il fallimento scolastico, un amore finito, l'incomprensione degli amici, l'ottusità dei genitori, il bullismo fisico e mediatico, la scoperta di una malattia, eccetera. Eppure, l'atto con cui un essere umano pone fine alla propria vita rimane nella sua assurdità, a ricordarci fino a che punto l'assurdità può regnare nelle nostre giornate. Basta, diceva Pirandello, un solo istante di vuoto: un istante fuori dall'ingranaggio.
Ma io penso anche a me, che insegno, e a tutti quelli che insegnano non importa dove: scuola, università, corsi professionali, master... E penso anche ai genitori, ai nonni, a chiunque abbia un ruolo formativo, o educativo. A cosa siamo tenuti, per esempio, noi insegnanti? A fare bene il nostro lavoro, a garantire un alto livello nei contenuti e nel metodo. Ci sono richieste competenza, precisione comunicativa, capacità di valutazione e, se possibile, una certa capacità di affascinare gli studenti.
Tutto questo non impedisce però a qualcuno di togliersi la vita. Un giovane è sempre fragile, e più ancora lo è chi ha passato parte dell'adolescenza (ma è solo un esempio) al tempo del Covid, quando la solitudine ha moltiplicato i possibili istanti di vuoto di cui parlava Pirandello. Un insegnante oggi non può non considerare questa variabile. So che non è tenuto a farlo, ma non farebbe bene il suo lavoro se non tenesse conto che qualcuno dei suoi allievi potrebbe uccidersi magari per una risposta in tono sprezzante, o per un voto basso.
Con questo non voglio certo dire che ci si debba sentire in colpa davanti a simili tragedie. Il dolore è già abbastanza grande. Niente sensi di colpa, perciò, ci mancherebbe: già un genitore controlla una piccola parte della vita dei suoi figli, figuriamoci un docente universitario.
Tutto questo però non toglie che, sia pure per lo 0,1% di incidenza che la nostra persona può avere sul destino di chi ci sta davanti, questo 0,1% vada curato con estrema attenzione: che per lo 0,1% sotto la nostra competenza noi facciamo di tutto - fino a dare la vita - affinché quella eventualità sia scongiurata. Davanti a un insegnante non ci sono solo volti, cervelli: ci sono dei destini. E questo, pur comprendendo l'importanza della tutela dell'eccellenza e del merito, conta più di tutto.
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