Fino al giugno di quest'anno, l'onnipotente «Mister Iran» dell'amministrazione Obama, Robert Malley, è rimasto alla Casa Bianca di Biden, pur essendo al centro di una cricca irano-americana pro-regime che a Washington ha raggiunto persino l'unità «operazioni speciali» del Pentagono, con accesso a tutti i possibili servizi segreti. Cresciuto a Parigi da genitori di sinistra dura e antisionista - una madre ebrea americana autoesiliata e un padre ebreo egiziano, che vedevano entrambi gli Stati Uniti come la fonte di tutti i mali e Israele come un demonio, e che hanno trovato un impiego congeniale lavorando per la dittatura arabo-nazionalista algerina del FLN -, Malley era sospetto fin dal primo giorno, ma anche intoccabile perché era stato compagno di stanza di Obama al college.
Dopo averlo tenuto alla Casa Bianca per quattro anni per fare amicizia con l'Iran e stipulare il «Piano d'azione congiunto globale», finalmente acquistato con balle di banconote da 100 dollari spedite per via aerea, Obama ha imposto Malley a Biden, fino a quando, finalmente, cinque mesi fa alcuni impiegati della sicurezza lo hanno sorpreso a maneggiare informazioni classificate, cioè a passarle ai suoi amici.
Malley è un caso estremo, ma gli altri «reduci» di Obama alla Casa Bianca (non c'è scelta: i Bideniani sono morti o in pensione da tempo) sono ancora ancorati al loro risentimento verso Israele e tutti i suoi ferventi sostenitori a Washington. Sostenitori che per loro sfortuna includono il presidente, la vicepresidente Kamala Harris, moglie di un marito ebreo e matrigna di una ragazza ebrea, il Segretario alla Difesa Austin e il Segretario di Stato, per il cui geniale patrigno Samuel Pisar, superavvocato parigino e consigliere presidenziale, ho lavorato una volta.
Peggio della loro inefficace posizione anti-Israele, che era piaciuta così tanto a Obama, è la loro ostilità nei confronti del principale alleato degli Stati Uniti nella regione, l'Arabia Saudita e, in particolare, del suo attuale governante Muhammad Bin Salman. Come liberali sociali e sessuali, avrebbero dovuto apprezzare molto l'audace liberalizzazione della vita saudita realizzata rapidamente da MbS, invece rimangono fissati sull'uccisione del poligamo fondamentalista e talvolta editorialista Jamal Khashoggi.
Poiché aveva scritto alcuni articoli per il Washington Post, i suoi redattori hanno preteso un potere di veto sui rapporti degli Stati Uniti con MbS, trovando i collaboratori della Casa Bianca fin troppo pronti ad eseguire i loro ordini. Anche il tardivo viaggio di riconciliazione di Biden a Gedda per incontrare Bin Salman, sulla scia dei distruttivi attacchi iraniani alle installazioni petrolifere saudite che non avevano suscitato alcuna risposta da parte degli Stati Uniti, è quasi naufragato a causa di funzionari della Casa Bianca che volevano che Biden prendesse a pugni MbS invece di stringergli la mano. Ed è per questo che l'incontro fra i due leader è finito in un gesto di saluto «pugno contro pugno»...
Inutile dire che la CIA, esperta nell'aver sempre torto (ha previsto con sicurezza sia la resistenza prolungata di Kabul sia la caduta immediata di Kiev), si è sbagliata irrimediabilmente anche sul Medioriente: sono stati i suoi «esperti» non arabi e non persiani a far trapelare i documenti di intelligence (una violazione criminale mai indagata) che hanno accusato MbS, mentre il loro atteggiamento nei confronti di Israele è stato arabo-nazionalista fin dalla sua nascita. Per quanto riguarda l'Iran, il contributo della CIA alla formulazione di una nuova politica iraniana è limitato dal suo scandaloso rifiuto di avere anche un solo agente della CIA sotto copertura in Iran («troppo pericoloso»), dove non c'è alcuna presenza diplomatica statunitense a fornire una copertura ufficiale molto sicura. Il che significa che l'Agenzia non ha modo di garantire che i suoi «asset» - iraniani reclutati all'estero - siano davvero chi dicono di essere, rendendo inaffidabili tutti i report degli agenti. Solo nei film la CIA fa davvero quello che dovrebbe fare: la sua presenza a Hollywood è davvero impressionante.
Non si tratta di impedimenti meramente amministrativi: solo il presidente può autorizzare e proclamare una nuova politica iraniana per porre finalmente fine alle incessanti minacce di Teheran e alle provocazioni armate dei suoi alleati (proprio la settimana scorsa alcune truppe statunitensi in Irak sono state colpite da attacchi missilistici). E il presidente ha bisogno di un'intera squadra di funzionari per risolvere tutti gli aspetti e supervisionare il coordinamento con tutti gli alleati interessati, come ad esempio l'India, che ha bisogno della cooperazione dell'Iran per accedere all'Asia centrale, dove ha basi aeree a ridosso di Cina e Pakistan che servono anche agli interessi degli Stati Uniti.
L'unica soluzione possibile è quella di portare alla Casa Bianca, su base temporanea, alcuni dei più competenti subordinati di Austin e Blinken, con il compito di formulare la nuova politica sull'Iran e di coordinarla con gli alleati statunitensi e con i loro colleghi di Stato e di Difesa.
Per quanto riguarda la sostanza, è perfettamente chiaro cosa si debba fare: «affamare la bestia», intercettando le esportazioni di petrolio dell'Iran in alto mare. Senza oleodotti, i due milioni di barili al giorno che l'industria iraniana, ormai degradata, può ancora esportare (sotto lo Scià erano il doppio) devono essere trasportati da petroliere facilmente identificabili e intercettabili. Apparentemente l'obiettivo sarebbe verificare che non vengano trasportate armi per rifornire le milizie iraniane, e l'ispezione di una petroliera può richiedere molto tempo. Non ci sarà alcuna penuria né aumento dei prezzi perché altri produttori potranno facilmente sostituire il petrolio iraniano.
Vero, non c'è alcuna possibilità di ottenere l'approvazione del Consiglio di Sicurezza dell'ONU, ma questo vale anche per il sostegno all'Ucraina e a Israele, così come per ogni iniziativa sui diritti umani e sui diritti politici.
A prescindere dalle complicazioni, è meglio affamare la bestia che combatterla, scatenando un'altra guerra in un Paese vasto, dove una facile vittoria sarebbe seguita da insurrezioni a non finire, anche se agli iraniani moderni piacerebbe vivere nell'Iran del dopo Ayatollah. Molto meglio inviare potenti forze nel Golfo Persico, ma solo per proteggere gli alleati degli Stati Uniti - in pratica tutti i Paesi del Golfo - dalle rappresaglie iraniane. Il successo non richiederebbe la caduta del regime. Sarebbe sufficiente ridurre la sua capacità di sostenere milizie assassine, continuando a distogliere i proventi delle esportazioni di petrolio dai bisogni degli iraniani in generale (gli slogan «no Hezbollah, no Palestina» si sentono a ogni protesta). Questo è un momento particolarmente propizio per esercitare pressioni economiche: l'aumento dei prezzi dei generi alimentari - in parte a causa della guerra in Ucraina - sta causando privazioni reali e persino fame vera e propria.
Si tratta di uno sforzo che dovrebbe essere sostenuto per diversi anni, ma che si concluderebbe con il ripristino dell'ascendente degli Stati Uniti nella regione, aprendo la strada a una vigorosa affermazione degli interessi statunitensi, compresa, molto probabilmente, la promozione della soluzione dei due Stati che Biden e molti in Israele già appoggiano, con un sostegno molto maggiore se l'Iran sarà finalmente domato.
Senza dubbio emergeranno altri problemi lungo il percorso, ma questo non è un motivo per continuare a blandire quell'Iran che continua ad attaccare gli alleati statunitensi, gli interessi degli Stati Uniti e, non di rado, persino le sue truppe.
(2 - fine)
traduzione a cura di Marco Zucchetti
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