Salute, multe e crolli in Borsa. L'anno orribile degli alcolici

Dopo il boom in pandemia, il settore ha fatto segnare un calo mondiale. L’inflazione ha colpito i consumi voluttuari, i big hanno perso fortune sui mercati e qualcuno è già fallito. Tra le nuove generazioni volano soltanto gli analcolici

Salute, multe e crolli in Borsa. L'anno orribile degli alcolici

Non importa con cosa si brindi, né quanto si mangi per «asciugare»: dopo ogni sbronza arrivano sempre postumi spiacevoli. E se questa amara realtà vale per chiunque alzi troppo il gomito, paradossalmente vale ancor di più per l'intera industria degli alcolici, che dopo il boom di vendite durante la pandemia - quando un bicchiere in isolamento era l'unico svago consentito - è appena uscita da un vero annus horribilis. Una «normalizzazione» (copyright di Pernod Ricard) o più precisamente un periodo di «difficoltà sostanziale» (copyright di un report di Noble & Co.) che rischia di costringere grandi e piccoli soggetti a ripensare obiettivi e sistema di business e che ha cause eterogenee. Perché da sempre bere alcolici ha a che fare con l'agricoltura e la cultura, la società e la religione, l'industria e il mercato.

Consumi in calo

Tutto ha inizio negli Stati Uniti, dove nel 2023 per la prima volta in trent'anni il consumo di alcolici era calato del 2%. L'anno scorso, la flessione è stata invece globale e più consistente del previsto: -2,6%. Secondo lo studio Nielsen Beverage alcohol year in review, nel 2024 l'indice TBA (Total beverage of alcohol) ha fatto segnare un declino sia per valore sia per volume: moderato per la birra (-0,7% e -2,9%), medio per gli spiriti (-1,1% e -2,3%) e sensibile per il vino (-3,5% e -5,3%). La Scotch Whisky Association ha comunicato un crollo anunale del 18% dell'export del whisky scozzese, il cognac ha esaurito la sua carica di marketing fra i giovani rapper della West Coast, il gin - protagonista di un decennio esplosivo - ha fatto segnare un -14% nel Regno Unito, la vodka ha patito le sanzioni e la guerra in Ucraina. Perfino il tequila, forse l'unica categoria che tiene, non cresce quanto si sperava, con conseguente crollo del prezzo dell'agave in seguito all'extra produzione. Insomma, complice anche l'impennata generale dell'inflazione che ha colpito il lusso e i consumi voluttuari, banalmente l'anno scorso il pianeta Terra ha bevuto meno. Buon per il fegato globale, meno per il business.

Tassi alti, investimenti arditi

Il generale ottimismo nel settore, che dura da ben prima della pandemia con la già citata «gin fever», la moda dei birrifici artigianali, l'enoturismo, la nuova età dell'oro del whisky (in Irlanda si è passati da 4 a oltre 50 distillerie, in Francia si sono superate le cento e perfino in Italia ci sono ormai una dozzina di produttori), aveva portato investimenti mostruosi ad ogni livello. Se Diageo, il principale attore sulla scena, nel 2017 ha comprato Casamigos, il marchio di tequila di George Clooney, per un miliardo di dollari e ha speso centinaia di milioni di sterline per riaprire distillerie di Scotch chiuse nel 1983, i piccoli investitori hanno mosso grandi fortune per bottiglie rare (a proposito, sono crollate anche le quotazioni in asta) e barili. In mezzo, realtà medie che hanno fatto passi che ora - dopo anni di rialzo dei tassi di interesse - si dimostrano più lunghi della gamba, o quantomeno passi che non godono più dei fidi illimitati delle banche. Mackmyra, distilleria svedese di whisky con 25 anni di attività, ha dichiarato bancarotta; altrettanto sta facendo Waterford, innovativo brand irlandese. La gallese Penderyn e la scozzese Glenglassaugh hanno messo in pausa la produzione. L'italiana Compagnia dei Caraibi, in seguito al fallimento della controllata Elephant Gin, ha perso quasi l'86% in Borsa. Sulla riva del fiume iniziano a passare i primi cadaveri, ma nessun nemico può dirsi soddisfatto.

I guai in Borsa

Una tale congiuntura economica di flessione nei risultati ed esposizione finanziaria delicata, unita agli stock di invenduto e alla conseguente svendita per smaltirli, non poteva che riflettersi sui mercati. Senza pretese di esaustività, i risultati degli ultimi 12 mesi di Borsa dei colossi degli spirits sono un cimitero di segni meno: Diageo -23,8%, Pernod Ricard -36,2%, Brown-Forman -45,6%, LVMH -11,8%, la cinese Kweichow Moutai -13,6%, la giapponese Suntory -5,4%. Stessa sorte per la birra, dal -15% di Heineken al -9% di Carlsberg. Discorso a parte merita Campari (-45,5%), il gioiello italiano del settore, che ha attraversato un Vietnam gestionale: l'addio a sorpresa del CEO Simone Fantacchiotti, sostituito prima ad interim dallo storico predecessore Bob Kunze-Concewitz e solo recentemente da Simon Hunt, ha pesato almeno quanto il calo di vendite (da 2,9 a 2,2 miliardi), trascinato dal crollo del mercato asiatico.

Oriente, gioie e dolori

Ecco, l'Asia è un grande punto interrogativo. La tardiva ma inesauribile sete di distillati e vino di Cina, Taiwan, Singapore e India è stata tra i veicoli di traino del settore. Ha perfino «drogato» i prezzi, soprattutto per il whisky, che per miliardi di persone è diventato status symbol. Il risultato è stato un'impennata speculativa dei prezzi, una necessità di aumentare la produzione e uno slittamento del focus commerciale ad Est. La crisi immobiliare di Pechino ha di fatto messo il guinzaglio agli investimenti, mentre le tariffe Ue del 35% sulle auto elettriche hanno innescato la rappresaglia dell'inchiesta per dumping sugli alcolici europei. Morale, il Bengodi del Far East che prometteva di comprare a qualsiasi prezzo qualsiasi liquido si è improvvisamente raffreddato. Diversa la situazione indiana, ottavo mercato per volume (45 miliardi di dollari l'anno), dove il problema è stato la burocrazia e la lentezza - molto indiana... - dei pagamenti: lo Stato del Telangana, per dire, deve mezzo miliardo alle compagnie occidentali. Chiude il cerchio la crisi della logistica del 2023, con tappi, cartoni, etichette e vetri introvabili, e pure il maltempo, che nel 2024 ha falcidiato la stagione estiva degli aperitivi.

Salute o demonizzazione?

Oltre alle cause economiche e geopolitiche, all'alba dei dazi trumpiano, esistono altri ordini di problemi, il primo dei quali è di natura sanitaria. Il report globale dell'OMS ha sancito che «ogni 10 secondi muore una persona a causa dell'alcol» e che l'alcol è cancerogeno «come asbesto, radiazioni e tabacco»; la rivista Lancet nel 2023 aveva portato evidenze scientifiche del fatto che «non esiste consumo di alcol senza danni alla salute». E così via. Le conseguenze sono state, sono e saranno importanti. In Irlanda dal 2026 ogni bevanda alcolica dovrà riportare in etichetta il link con i tumori, come le sigarette. Stessa cosa avverrà in molti altri Paesi, che con l'obiettivo - o la scusa - della salute aumenteranno le accise come la Gran Bretagna, dove è in vigore la tassazione più alta del G7. Ma se la crociata per un consumo responsabile è sacrosanta, meno lo è la demonizzazione totale portata avanti da una vera e propria «lobby salutista». Singolare il caso portato alla luce da Nick Morgan, ex global marketing director per il whisky di malto di Diageo in un suo intervento su barleymagazine.com: il whisky e gli altri distillati sono stati inseriti nella categoria UPF (Ultra processed food) della cosiddetta classificazione Nova del cibo: in sostanza, anche se sono prodotti semplicemente con acqua, lievito e cereali (o agave, o vinacce) e senza additivi chimici, sono equiparati al cibo spazzatura, al pari di bibite iperzuccherine e hot dog. A cascata, i distillati sono diventati brutti e cattivi, non solo per motivi medici, ma anche «etici». Gli attivisti del cibo, parenti di quelli dell'ambiente, li hanno messi alla berlina: «Dopo Big Pharma, Big Alcohol è la nuova corporazione malvagia da combattere», chiosa il dottor Morgan. Dal consumo consapevole allo stigma per qualsiasi consumo.

Una generazione di astemi

La propaganda anti-alcol attecchisce soprattutto tra le nuove generazioni, lontane dal Temperance Movement che predicava l'astensione dagli alcolici durante il Proibizionismo, ma pure dagli eccessi di Baby Boomers, Generazione X e pure Millennials. Due dati balzano all'occhio: secondo i dati IWSR, la percentuale di ragazzi che non beve alcolici in ognuno dei 15 mercati presi in analisi è superiore delle altre fasce d'età e l'86% è preoccupato degli effetti dell'alcol sulla salute. Così si spiega il boom del «no & low», cioè prodotti analcolici o a basso tenore alcolico, un business che crescerà di 4 miliardi di dollari di valore entro il 2028, trascinato proprio dai giovanissimi, per cui bere alcolici non è più trendy. Anche qui, oltre al motivo salutistico ci sono le ombre: la sempre minore socialità dei ragazzi, la sostituzione degli alcolici con i più economici prodotti cannabinoidi leggeri. «Ma se le congiunture di mercato sono cicliche, il cambio generazionale di abitudini - spiega Morgan - ha ripercussioni più lunghe». La ricerca del tanto agognato «nuovo consumatore», perseguita dai marchi con packaging e campagne di comunicazione sempre più giovanilistiche, si annuncia complicata.

Il futuro (e il Codice della Strada...)

Dunque, andiamo verso un mondo distopico di tee-totaller, gli astemi che si appuntavano la coccarda blu nell'Ottocento? Forse, ma non subito. Gli analisti prevedono una timida ripresa del settore nel 2025 (+0,4%, dati IWSR), grazie - chi si rivede - a India e Cina. L'Occidente è tutta un'altra storia, che ha a che fare con un clima vagamente puritano e una maggiore attenzione alle implicazioni sociali, che si esprime anche nelle nuove, severissime regole per chi si mette alla guida sotto l'effetto di alcolici: l'entrata in vigore del nuovo Codice della strada, ad esempio, ha gettato nello sconforto ristoratori e gestori di bar e pub, che denunciano un crollo del 30% dei consumi. Di certo in questo quadro le compagnie dovranno darsi da fare: magari limare l'esorbitante rincaro delle bottiglie, dove la «premiumizzazione» dei prezzi non è andata di pari passo con la qualità; e ancora riorganizzare l'offerta, inventare nuove strategie.

Sperando che non si avveri la profezia del Vangelo secondo Luca, quando l'angelo vaticina l'arrivo del Battista, un uomo del futuro che «non berrà né vino, né bevande inebrianti e sarà pieno di Spirito Santo fin dal grembo di sua madre».

Lo Spirito Santo, malauguratamente, non fa utili e non riempie gli scaffali.

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