Senza capi né soldi (e divisa in bande). Il futuro della Cupola sempre più incerto

Chi comanda ora? La domanda è legittima, ma non ha una risposta. E mai ce l'avrà, forse

Senza capi né soldi (e divisa in bande). Il futuro della Cupola sempre più incerto

Chi comanda ora? La domanda è legittima, ma non ha una risposta. E mai ce l'avrà, forse. «Con l'arresto di Matteo Messina Denaro cambia tutta la narrazione mainstream - ragiona con il Giornale uno sbirro che ha partecipato alla cattura clamorosa di un altro latitante - perché per la prima volta da 50 anni c'è una casella vuota che nessuno può riempire. Non si può più parlare di una cupola. E anche l'Antimafia, la Procura di Palermo e chi ha combattuto finora Cosa nostra dovrà farsene una ragione».

Già, perché è vero che Messina Denaro era l'erede di Totò Riina (arrestato - che coincidenza - esattamente trenta anni fa) era un picciotto che «gli era cresciuto sulle ginocchia», e storicamente le famiglie del quadrilatero Trapani, Alcamo, Mazara del Vallo e Castelvetrano - regno del boss arrestato ieri - erano le principali alleate dei Corleonesi almeno dal 1981. «Suo padre (Ciccio, ndr) era un bravo cristiano, lo ha messo nelle mie mani per farne quello che dovevo fare... e io l'ho fatto buono...», avrebbe confidato a Giovanni Brusca l'ex capo dei capi, per cui dopo un tirocinio di cinque anni era «la luce dei suoi occhi». Ma Messina Denaro, mal visto dalle altre famiglie, non era il capo di Cosa nostra dopo la morte di Totò 'U curtu. Un po' per l'insofferenza rispetto alla sua leadership anche dentro i 17 clan trapanesi, visti anche i costi di gestione della latitanza sempre più incompatibili con i volumi d'affari, indeboliti dagli arresti e dal costoso sostentamento delle famiglie dei detenuti. Lo stesso Riina lo aveva scaricato, definendolo «un ragazzino che si è messo a prendere soldi, si interessa di se stesso e non delle questioni...».

E adesso che cosa succede? «Per qualche settimana, forse due mesi direi nulla - dice l'investigatore al Giornale - poi qualcosa succederà. I nomi? E se ti dico Settimo Mineo? Salvatore Lo Piccolo? Giovanni Motisi? Che senso ha farli? Sceglietelo voi...». «Gli ultimi blitz hanno azzerato i vertici. E nessuno tra i nuovi boss vuole farsi comandare da qualcun altro», dice invece un ufficiale di un importante corpo di polizia antimafia che conosce le nuove dinamiche criminali in Sicilia: «A Catania non ci sono solo i Santapaola-Ercolano, ci sono le paranze. Ragazzini, ma anche 25enni, armati e fuori controllo, che vogliono scalzare gli uomini d'onore cresciuti sui banchi della vecchia scuola». A Milano negli anni Ottanta il famigerato clan dei Cursoti poteva contare su 800 «soldati», l'altro giorno il nipote incensurato proprio di un loro esponente storico è stato bastonato e ferito a pistolettate a Catania. «Un segnale da decifrare, la spia di tensioni mai sopite tra gruppi criminali di ragazzini o quasi che sanno sparare e non vedono l'ora di farlo, tanto che persino le rapine e altri reati predatori sono compiuti da affiliati, non più da criminali comuni, anche per dimostrare capacità e determinazioni criminali», dice l'ufficiale. Ci sono anche i «cavalli di ritorno», vecchi boss che dopo anni dietro le sbarre reclamano una forzata riconfigurazione organica, non sempre condivisa e non priva frizioni con chi ha dovuto gestire «in reggenza» i mandamenti, cambiando equilibri di potere in modo indigeribile per l'ancient regime e per chi reclama mani libere e pieni poteri.

I business sono sempre quelli: spaccio, frodi agricole, gioco d'azzardo, scommesse e corse clandestine di cavalli, sicurezza nei locali notturni ma anche corruzione elettorale ed estorsioni, grazie a imprenditori spregiudicati e funzionari corrotti, attratti dal facile arricchimento legato agli appalti pubblici. I proventi finiscono per lo più lontano dai riflettori locali e nell'economia legale attraverso alchimie contabili in mano a insospettabili professionisti del Nord, da Milano a Londra.

Ma il territorio conta ancora, eccome. Palermo resta suddivisa in otto mandamenti, composti da trentatrè famiglie (e la Provincia è ancora strutturata in 7 mandamenti governati da altre 49 famiglie. Nessuna però sembra avere voglia di dettare legge in tutta l'isola, vista anche la «costante inoperatività» della commissione provinciale di Palermo. Meglio la propria comfort zone, finché c'è. Cosa nostra infatti deve in qualche modo «condividere» il territorio del capoluogo con le spietate confraternite nigeriane che governano il mercato della droga. «La mafia non ha più tanti soldi che ha aperto anche a spacciatori extracomunitari, che se vanno in galera non vanno mantenuti», spiega ancora l'ufficiale. Alle famiglie resta il pizzo, ma chi paga pretende che il mafioso lo aiuti a scalzare i concorrenti. E anche i picciotti sono in condivisione tra le famiglie, un prestito di manovalanza per fare economia. Come a Messina, città al centro delle influenze incrociate delle famiglie palermitane, dei boss catanesi e della dirimpettaia ndrangheta, che all'uopo fornisce gli stupefacenti.

Alcuni clan come Sciuto, gli stessi Cursoti, Piacenti e Nicotra «seppur fortemente organizzati e, per quanto regolati secondo schemi classici, evidenziano una maggiore flessibilità, non facendo parte organicamente della struttura di Cosa nostra», per tacere della Stidda che ad Agrigento, Vittoria e Comiso è padrona, scrive la Dia. Divide sed non impera. Non più.

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