Teatri, cinema, bar, ristoranti, discoteche. E tribunali. Il Covid non cambia solo le abitudini quotidiane degli italiani e i loro bisogni di nutrimento fisico o mentale, intralcia anche la giustizia. E la fine del lockdown, i mesi estivi di diffuso sentimento da liberi tutti non sono serviti, nemmeno nei palazzi dove si amministra la giustizia, a prepararsi a una nuova ondata. Peccato che già senza pandemia la giustizia italiana non godeva di eccellente salute, e che se scuola e università tentano con alterne fortune di barcamenarsi, per i processi le cose non vanno a affatto meglio. Anzi. A denunciare «carenze diffuse» e «mancanza delle dotazioni informatiche per lo smart working» è l'Associazione nazionale magistrati, che attacca le istituzioni che restano «silenti» mentre «la pandemia avanza nei palazzi di giustizia».
Se prima erano stati gli avvocati a denunciare le mancanze delle norme sul processo a distanza e le ingiustizie che ne derivavano, ora anche le toghe se ne lamentano, ammettendo, come già denunciato dall'Unione delle camere penali, i «rischi cui vengono esposti gli operatori e gli utenti». Ma anche uno stato di ritardo tecnologico che rende, di fatto, difficilmente applicabili le novità imposte dal Covid. «I magistrati italiani - spiega infatti l'Anm - continuano a disporre di applicativi inadatti per celebrare udienze a distanza, con reti di connessione inefficaci; la trattazione scritta è consentita solo fino al 31 dicembre, con un procedimento per di più macchinoso; mancano le annunciate dotazioni informatiche per lo smart working del personale giudiziario; magistrati, avvocati, personale amministrativo e utenti continuano a utilizzare aule e spazi inadatti a ospitare le udienze in presenza».
Insomma, un disastro, nonostante risalga a poco più di una settimana fa l'annuncio di un accordo su un «vero» Smart working tra ministero della Giustizia e sindacati del comparto giustizia, per superare alcune «stravaganze», come l'impossibilità per i cancellieri di potersi collegare ai registri lavorando da casa. E se ora sono anche i magistrati a rimarcare ritardi e mancanze, c'è da chiedersi quando il sistema giustizia verrà messo in condizioni di ripartire nonostante l'emergenza. Ora ci sono avvocati che si ingegnano su come depositare gli atti, magistrati che si scontrano con la mancanza del necessario supporto tecnologico, e «utenti» che pagano il prezzo più alto. E ad aumentare le perplessità, c'è anche l'amara consapevolezza che, a differenza del primo lockdown, stavolta l'emergenza era ampiamente annunciata. Il tempo per correre ai ripari c'era, ma, come conclude nella sua denuncia l'Anm, «pare in definitiva che l'esperienza della prima ondata di contagi non sia servita a programmare il futuro immediato e a immaginare misure adatte a un servizio essenziale qual è quello giudiziario».
Tanto che, se pure le toghe assicurano che si esporranno in prima persona «pur di dare risposta alla domanda di giustizia», si chiamano fuori dal caos del sistema, puntando il dito contro «l'assenza delle Istituzioni cui la Costituzione affida l'organizzazione del sistema giustizia».
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