"Come vincere una battaglia". Se il televoto musicale diventa un'arma di guerra

Ma adesso? Come previsto, l'Ucraina ha vinto l'Eurovision Song Contest con una ragionevole quantità di voti delle giurie ma soprattutto con una massa gigantesca di voti popolari

"Come vincere una battaglia". Se il televoto musicale diventa un'arma di guerra

Ma adesso? Come previsto, l'Ucraina ha vinto l'Eurovision Song Contest con una ragionevole quantità di voti delle giurie ma soprattutto con una massa gigantesca di voti popolari. In 27 nazioni è stata la canzone più televotata (459 voti), in sostanza un plebiscito mitteleuropeo che ha portato il paese sotto attacco dal quarto posto all'irraggiungibile primo. Un risultato che non è scandaloso dal punto di vista musicale ma è altamente simbolico da quello politico.

Già in passato, specialmente la vittoria dell'austriaca Conchita Wurst (2014) e dell'ucraina Jamala (2016) avevano accesso la luce sulla rilevanza geopolitica del voto dell'Eurovision. Nel primo caso, la canzone Rise like a phoenix non era irresistibile (e difatti non ha resistito neanche un minuto nelle classifiche) ma è diventata secondo molti la calamita dei voti chi lotta per i diritti della comunità Lgbtq+. Nel secondo, che ci interessa ancor più da vicino, la canzone di Jamala, intitolata 1944, è ispirata dalla deportazione dei Tartari della Crimea sotto il regime di Stalin. Attuale allora perché la regione era appena stata invasa da Putin. Quell'anno, l'Ucraina se la giocò fino alla fine con il russo Lazarev che, secondo molti, aveva una canzone più convincente dal punto di vista artistico. Però la Russia perse. È l'ennesima conferma di come spesso i risultati delle competizioni popolari abbiano una rilevanza geopolitica che, per snobismo o disinteresse, molti analisti colpevolmente sottovalutano. Ma adesso?

Dopo il plebiscito pro-Ucraina, c'è da attendersi altre dimostrazioni analoghe in altre manifestazioni legate al voto popolare? Ed è giusto mescolare in modo così nitido la musica con la politica, l'arte con la guerra? Le responsabilità, le sorti e i destini di un artista o di un atleta con le vicende dello Stato nel quale è nato? Da una parte, d'istinto, verrebbe da dire di sì. Dall'altra ci sono molte ragioni più argomentate per dire di no. Se fosse accaduto così in passato, dal 1945 in avanti le opere di Wagner, il preferito di Hitler, non avrebbero più dovuto essere rappresentate e invece lo sono state giustamente ovunque, anche alla Prima della Scala. Ed è solo un esempio tra tantissimi. Uno dirà: ma all'Eurovision c'entra il televoto, che misura la «pancia» dei votanti. Non a caso, praticamente tutti i paesi confinanti con l'Ucraina hanno votato in massa per la Kalush Orchestra, a dimostrazione che è stata non soltanto la solidarietà ma anche la paura a rendere così muscoloso e preponderante il verdetto a favore di «Stefania», una canzone che, come ha confermato ieri la moglie di Zelesnky, ha un sensibile valore politico: «È una vittoria per l' Ucraina nella guerra» ha scritto su Telegram. Senza questarilevanza, probabilmente il brano si sarebbe piazzatoa metà classifica oppure un po' più alto, ma difficilmente avrebbe vinto. In ogni caso, al di là dell'apprezzamento in sé, sia i social che l'uomo della strada manifestano un po' di smarrimento di fronte a questa miscela inedita nelle dimensioni, non nello spirito. Come abbiamo visto anche in Italia, spesso la musica ha sposato oppure è diventata simbolo di battaglie politiche. ma quasi mai nel mondo quest'arma è stata così esplosiva e deflagrante.

Se la Nato, non le giurie di esperti musicali, dice che questa vittoria rappresenta il sostegno a Kiev di tutta l'Europa e dell'Australia, è evidente che l'Eurovision sia stato un referendum con un esito evidentissimo. Ma adesso?

È stato un caso oppure in tempi stretti le competizioni affidate al voto popolare saranno sottoposte anche a questa variabile? È corretto? La pancia dice sì. Ma la testa è convinta di no.

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