
nostro inviato a Verona
C'è chi vede la catastrofe, chi sembra rassegnato, chi vuole combattere, chi alla fine pensa che il problema non sia grosso come sembra. Tra i padiglioni del 57° Vinitaly si cerca di guardare avanti, si parla molto di vini No-Lo (senza o con poco alcol), si presentano i nuovi prodotti sempre più leggeri, sempre più eleganti, e le nuove annate dei vini storici. Ma alla fine il pensiero va sempre là, ai dazi imposti da Donald Trump che potrebbero far crollare quello che è il primo mercato dell'export del vino italiano. Ed è stato l'export, per chi non lo sapesse, a tenere in piedi la baracca in questi ultimi anni di contrazione dei consumi interni.
Insomma, la partita è decisiva. Paolo Mastroberardino, esponente della più importante famiglia del vino campano e titolare di Terredora oltre che presidente della sezione economica regionale di Confagricoltura Campania, è drastico: «Qui non parliamo di contrazione, parliamo di sopravvivenza».
Alcuni produttori vedono il nemico non tanto nei dazi quanto nell'incertezza. «Inizialmente pensavamo - ci dice Chiara Lungarotti della storica azienda umbra - che l'aumento dell'inflazione avrebbe spinto Trump ad agire sui tassi rafforzando il dollaro, ciò che avrebbe in parte attenuato l'effetto dei dazi. E invece questo sta facendo di tutto per far scendere il dollaro e il dazio rischia di raddoppiarsi. L'unica cosa che possiamo fare è lavorare sui diversi scenari e farci trovare pronti quando le nebbie si diradano. Di certo l'economia più importante del mondo ha perso ogni credibilità».
Lamberto Frescobaldi, presidente del gruppo toscano e dell'Unione italiana vini, a Winenews parla di «un problema grosso, soprattutto per le aziende che in questi anni hanno creduto nel mercato americano e sono molto esposte, penso ad alcune aziende di Montalcino, ad alcune aziende di Barolo. Ma questa è una partita a scacchi e noi produttori non dobbiamo farci travolgere dalle nostre paure».
Tra i meno pessimisti c'è Silvia Allegrini, esponente di una delle famiglie storiche dell'Amarone: «Serve calma e pragmatismo - ci dice - è una situazione che non penso possa durare a lungo, ma finché c'è credo che il male vada diviso lungo tutta la catena, il produttore, l'importatore, i distributori, il cliente finale. Di certo non esiste un mercato che possa compensare l'eventuale crollo degli Stati Uniti, noi vendiamo in più di 80 Paesi, ma nemmeno rafforzandone venti potremmo riassorbire quello che si perderebbe negli Usa».
Conquistare nuovi mercati non è una cosa che si possa fare in breve tempo. «Il 40 per cento dei vini italiani va in America - nota Alessandro Nicodemi, presidente del consorzio dei vini abruzzesi -. Quanto ci vorrebbe per riempire quel 40 per cento, 40 anni? L'unica speranza è che gli importatori abbandonino i vini francesi, più cari degli italiani, e si buttino sui nostri. Ma forse è solo fantascienza».
E se Marco Caprai, titolare di Arnaldo Caprai in Umbria, stimola l'Europa («ha l'obbligo di trattare, di parlare con il governo americano, certo con un mercato americano azzoppato avrà grandi difficoltà, si dovrà riprogettare l'Europa dell'agricoltura»), Camilla Lunelli di Ferrari avverte: «Guai a pensare che il 20 per cento sia un piccolo male visto l'ipotesi iniziale del 200, anche perché lungo la catena questo 20 diventerà molto di più». La guerra commerciale è appena incominciata, mettete dei tappi nei vostri cannoni.
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