
Il 7 febbraio 1945 una colonna di un centinaio di partigiani, formata principalmente da membri dei Gap (i Gruppi di azione patriottica legati al Pci) sale verso le malghe di Porzûs. Lì si è acquartierato il comando del Gruppo delle brigate est della divisione Osoppo. Le formazioni partigiane autonome Osoppo erano nate il 24 dicembre 1943 presso la sede del Seminario Arcivescovile di Udine, per iniziativa di volontari (repubblicani e monarchici) di ispirazione laica, liberale, socialista e cattolica. I membri tra di loro si chiamavano «patrioti», come segno di riconoscimento avevano scelto il cappello alpino e il fazzoletto verde. Quanto al nome: durante i moti risorgimentali del 1848 la fortezza della cittadina di Osoppo aveva opposto una strenua resistenza all'esercito imperiale austriaco che l'assediava. Insomma gli Ossovani che rispondevano al Cln italiano avevano come scopo la resistenza ai tedeschi ma legavano il loro operato alla permanenza all'Italia dei territori a maggioranza italiana.
Il più alto in grado alle malghe di Porzûs era il capitano degli alpini Francesco De Gregori, nome di battaglia «Bolla», il presidio era fortemente ridotto dopo i duri scontri coi tedeschi, per la difficoltà dei rifornimenti invernali, e per la terra bruciata ideologica e non solo che il IX Korpus Sloveno e i partigiani della brigata comunista Garibaldi - Natisone avevano fatto attorno agli ossovani contrari al fatto che tutti i partigiani dovessero dipendere dalle forze comuniste titine.
Ma all'arrivo della colonna, anche se molti uomini si dispiegano come per accerchiare le malghe, De Gregori (zio del cantautore omonimo) e il suo commissario politico Gastone Valente (nome di battaglia «Enea») non si insospettiscono, i nuovi arrivati si presentano come un reparto partigiano sbandato. Hanno rapporti tesi con i comunisti ma restano alleati. Non così il loro comandante Mario Toffanin, «Giacca», che ha le idee chiarissime: disarmano i partigiani dell'Osoppo al minimo accenno di resistenza e sparano. De Gregori, Valente, Giovanni Comin, Gastone Valente ed Elda Turchetti vengono uccisi subito. Altri 14 partigiani, presi prigionieri, sono eliminati nei giorni successivi, tra loro anche Guidalberto Pasolini, fratello minore del poeta Pier Paolo. Un eccidio su cui inutilmente una serie di processi cercheranno di gettare piena luce dopo la guerra. Anche perché sul tema si è scatenata la battaglia ideologica, con da una parte un Pci giustificazionista, dall'altra i partiti di governo, a partire dalla Dc, intenti a cercare di dimostrare l'anti-italianità dei comunisti che avevano preferito i dettati di Tito e di Mosca alla Patria. I condannati per la strage, per altro, si sono spesso palleggiati le responsabilità, con versioni riduzionistiche che facevano di Mario Toffanin, «Giacca», un sanguinario che aveva trasceso gli ordini italiani e sloveni, facendo di testa sua. Toffanin per altro emigrato all'estero - e graziato dal presidente Pertini nel 1978 abbastanza inspiegabilmente - è stato insignito dalla Jugoslavia della Partizanska Spomenica 1941, il riconoscimento per i veterani della lotta partigiana.
Ora a ricostruire con grande acribia documentale, ma con un piglio narrativo adatto anche ai non addetti ai lavori, il più grave eccidio intra-partigiano della resistenza italiana è il saggio appena pubblicato per i tipi di Mondadori: Sangue sulla resistenza. Storia dell'eccidio di Porzûs (pagg. 264, euro 23). L'autore, Tommaso Piffer, associato di Storia contemporanea all'Università di Udine, completa anni di ricerche sul tema (sua la curatela, per il Mulino, di Porzûs. Violenza e Resistenza sul confine orientale) grazie al reperimento e allo studio di documentazione slovena inedita.
Piffer evidenzia «tre linee di faglia» che hanno spaccato il nostro Paese, in generale, e il Friuli-Venezia Giulia in particolare: la frattura tra fascismo e antifascismo; la difficoltà di definire un confine con la Jugoslavia; e la frattura altrettanto profonda tra comunismo e anticomunismo. Non si spiega lo sterminio delle malghe senza far luce su questo contesto e dissipando una «nebbia di guerra» che si è poi trasformata in nebbia politica.
Il risultato, come provano i documenti di parte slovena riportati in appendice al volume, è che i comunisti italiani della Natisone si piegarono agli ordini che arrivavano dal IX Korpus, e con largo anticipo. Non ci fu nessun colpo di testa di Toffanin. Già il 5 dicembre 1944 veniva comunicato al comitato provinciale del Partito comunista sloveno: «Se le direttive verranno eseguite alla lettera, liquideremo presto questa gentaglia». Scrive Piffer: «A febbraio i gappisti guidati da Toffanin si limitarono a realizzare quello che il comando della Natisone aveva stabilito di fare due mesi prima. Lo fecero forse con un supplemento di brutalità frutto del fanatismo dei loro comandanti, del martellamento ideologico... e non da ultimo dall'abbrutimento causato da una guerra che a Mario Toffanin non aveva risparmiato niente. Ma è al comando della Natisone che si deve ricondurre la genesi dell'operazione e il clima di odio che la rese possibile».
Nel dopoguerra il Pci serrò le fila per coprire i responsabili. Il commissario della Natisone, Giovanni Padoan, nel tentativo di scagionare se stesso e la Natisone gettò sugli sloveni la responsabilità di aver ordinato a Toffanin di attaccare le malghe.
Ma tra le altre responsibilità del Comando della Natisone ci fu anche quella di costruire false accuse contro gli Ossovani di collusione coi fascisti anche sfruttando delle false testimonianze di cui, a decenni di distanza, è ormai quasi impossibile capire l'esatta dinamica. Una storia tremenda che a questo punto dovrebbe poter essere raccontata senza più nebbie, ma soltanto con grande pietas.
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