Quegli eroi che vinsero perdendo tutto: la nobiltà della sconfitta

Dagli antichi guerrieri ai kamikaze. Ecco il pantheon laico della storia giapponese

Quegli eroi che vinsero perdendo tutto: la nobiltà della sconfitta

«Quello ch'io avrei voluto era morire in mezzo a estranei, indisturbato, sotto un cielo sgombro di nuvole una morte simile a quella del volpacchiotto, non ancora ben pratico di astuzie, che va errando sbadatamente su un viottolo montano ed è colpito dal cacciatore a causa della sua stupidità...». Così parla Kochan, il protagonista-narratore di Confessioni di una maschera. Siamo nel 1948-49, e Mishima Yukio, poco più che ventenne, tramite Kochan sta facendo i conti con la propria omosessualità che lo obbliga, appunto, a indossare una maschera per nasconderla. La morte a Kochan appare l'ultimo evento subìto, ma in qualche modo ancora romantico, della vita, una conclusione figlia dell'inesperienza o dell'errore.

Ma nel 1956, in Mishima le cose sono cambiate. Leggiamo in Il Padiglione d'oro queste parole di un altro protagonista-narratore, il monaco Mizoguchi: «Finché ero prigioniero senza scampo della bellezza, come avrei potuto tendere le mani verso la vita? Forse era anche giusto che la bellezza m'imponesse una rinuncia. Non è possibile sfiorare con una mano l'eternità e con l'altra la vita». Brutto, mingherlino e balbuziente, Mizoguchi si dice «prigioniero» della bellezza, ovvero del Tempio del Padiglione d'oro di Kyoto nel cui mito ha vissuto fin da bambino, quando ancora quel luogo non era diventato la sua casa, perché la bellezza lo schiavizza, impedendogli di vivere altrove. Delle due l'una: o votarsi alla bellezza, o rinunciare a essa per entrare nel mondo. Mizoguchi deve scegliere fra l'eternità e la vita. Sceglie la vita, quindi incendia il Tempio.

Spostiamoci al 1971. Su The New York Review, durante un botta e risposta a proposito di Mishima, morto suicida il 25 novembre del '70 alla maniera dei samurai, squarciandosi il ventre e poi facendosi decapitare da un uomo fidato, Ivan Morris, studioso britannico della cultura giapponese, ribatté fra l'altro così a Gore Vidal, di Mishima tutt'altro che ammiratore: «La tempistica e l'esecuzione della morte di Mishima si adattano perfettamente allo schema degli eroi falliti del Giappone, appartenenti a una tradizione che risale alla storia più antica del Paese». Nel '64 Morris aveva dedicato un vasto saggio a Genji monogatari, ovvero La storia di Genji, il Principe Splendente, fluviale romanzo dell'XI secolo di Murasaki Shikibu, dama di corte dell'imperatrice Shoshi. E quattro anni dopo il duello con Gore Vidal diede seguito alle parole ora citate pubblicando The Nobility of Failure, un excursus che parte dal IV secolo e arriva al XX sui celebri vinti giapponesi, diventati per il loro popolo vincitori morali, quando non semidei.

Quest'opera (riproposta da Medhelan, pagg. 500, euro 28, traduzione di Francesca Wagner) si apre con i «Ringraziamenti», con dedica: «Yukio Mishima mi disse una volta che la mia ammirazione per la cultura della corte giapponese e il sereno mondo di Genji avrebbe potuto offuscare gli aspetti più crudi e tragici del suo paese. Concentrando i miei studi degli ultimi anni sugli uomini d'azione, la cui breve vita è stata segnata dal tumulto della battaglia, ho forse riequilibrato l'ago della bilancia, ed è appunto al ricordo di Mishima che dedico questo libro».

Nella Prefazione, Marcello Ghilardi, autore fra l'altro di Arte e pensiero in Giappone, prepara il terreno al lettore spiegando come nel Sol Levante la convivenza e le sovrapposizioni tra confucianesimo, shintoismo e buddhismo (quest'ultimo con i concetti di nirvana e di impermanenza) abbiano generato la formula «mono no aware», espressione vicina al lacrimae rerum di Virgilio, il pathos delle cose. Una formula che sintetizza lo stile di vita in cui si sommano, da un lato la compassione per il mondo intero e dall'altro ciò che potremmo chiamare, capovolgendo l'espressione vitalistica francese, élan mortal, l'andare incontro alla morte senza pentimenti né remore, al contrario, con l'entusiasmo di chi restituisce all'intera umanità ciò che da essa ha ricevuto.

Del primo personaggio che incontriamo, il principe Yamato Takeru, vissuto nel IV secolo, parla più la leggenda che la storia, magnificandone bellezza e forza. Una forza con cui sbaraglia gli insorti, ma che non gli vale a nulla quando, dopo aver offeso la divinità del monte Ibuki, è colpito da una grave malattia. Per lui, niente suicidio, né accanimento dei nemici, bensì un atto d'insubordinazione al potere divino. Due secoli dopo, siamo in epoca di centralizzazione del potere imperiale a dispetto dei clan, e soprattutto di assorbimento del buddhismo, e il guerriero Yorozu è il primo suicida certificato a seguito di una sconfitta in battaglia. Del resto, un antico proverbio giapponese dice che «i vincitori diventano l'esercito imperiale, i vinti diventano i ribelli». Il malinconico principe Arima no Miko, cent'anni dopo, non si segnala per doti guerresche, ma per il fatalismo con cui subisce una congiura familiare (finendo strangolato per volere del cugino). Sul IX secolo spicca la complessa figura di Sugawara no Michizane. Letterato e cultore della poesia cinese, è nominato consigliere dell'imperatore Uda e poi inviato a fare il governatore in provincia; ma la politica, sempre piena di trucchi e doppi giochi, non è il suo forte; tornato a corte, con il nuovo imperatore Daigo il suo potere aumenta; e i Fujiwara non gradiscono. Tuttavia è un unicum, in questa galleria, perché muore nel suo letto. Una quarantina d'anni dopo diventa «il primo suddito giapponese ufficialmente deificato» con il nome Tenjin.

Nel XII secolo, Minamoto no Yoshitsune è il contraltare tutto azione e sprezzo del pericolo dell'esteta e cortigiano Genji immortalato da Murasaki Shikibu. Novizio in un tempio, rifiuta di farsi radere i capelli; bellezza femminea, fisico esile, ma energia che ha del miracoloso; per nemici non ha soltanto i Taira, ma anche il fratellastro; accusato di congiura, diventa una sorta di Robin Hood (ha anche lui il suo frate Tuck, il monaco Benkei) e capeggia un manipolo di uomini pronti a tutto; catturato, prima fa sopprimere moglie e figli perché non cadano in mano nemica, poi si uccide. Un altro eroe da... film di kimono e katana in luogo di cappa e spada è, nel XIV secolo, Kusunoki Masashige: fedele all'imperatore contro la casta militare del Bakufu, come Minamoto no Yoshitsune si dà alla macchia e infine, da buon samurai, compie con fierezza il seppuku rituale insieme ai suoi sodali.

Saltiamo mezzo millennio (poi vedremo perché) ed ecco Oshio Heihachiro, il prediletto di Mishima. Da giovane lavora in polizia, perseguendo i cristiani come da ordini superiori, poi si dimette e nel 1837 capeggia una rivolta popolare. Molti lo fanno passare per rivoluzionario e addirittura proto-comunista, ma il suo motto «salvate il popolo» è da leggere in chiave anticorruzione, e conduce la sua operazione Mani Pulite ante litteram avendo come codice il neoconfucianesimo del maestro cinese Wang Yang-Ming, vissuto tra XV e XVI secolo, che mette il fare prima del pensare. Infine si uccide davanti ai suoi ex colleghi, recidendosi la carotide. Un tipo simile, nel XIX secolo, è Saigo Takamori. Partito come modesto funzionario di clan nel Kyushu, a 45 anni diventa l'uomo più potente del Giappone dopo l'imperatore. Quindi l'illuminazione: «riverite il cielo, amate l'umanità», ergo, liberatevi dal... regime dei colonnelli. Detto, fatto: dopo sette secoli, il Bakufu è azzerato. Ma il suo vecchio amico Okubo lo tradisce, trattando i samurai come vecchi arnesi da mandare in soffitta. E per di più gli inglesi bombardano Kagoshima, la sua città. Si dà la morte, ma la Storia lo resuscita, meglio, lo deifica ritraendolo come un Buddha. Entrando nel Novecento, a Morris s'inumidisce il ciglio descrivendo l'Oka, cioè «fiore di ciliegio», l'aereo che trasportava i kamikaze (ma allora non si chiamavano così, bensì unità shinpu, «vento divino») e le bombe insieme alle quali si sarebbero lanciati contro gli obbiettivi statunitensi, spessissimo fallendo i bersagli. Lo definisce «una delle armi più straordinarie e commoventi nella storia della tecnica militare» e «delicato bozzolo verde»... La canzone preferita di quei ragazzi, prevalentemente studenti universitari, dice «Mai pensare di vincere!/ I pensieri di vittoria portano soltanto alla sconfitta./ Quando perdiamo, avanti, sempre avanti». Il suicidio era la loro vittoria.

A proposito di suicidio, dobbiamo colmare la lacuna lasciata sopra, tornando al XVII secolo con Amakusa Shiro. Cristiano, lo chiamavano Hieronimo ed era considerato «incarnazione di deisu (Deus), il Signore», insomma, il Messia.

Lottò come un leone, con i suoi correligionari proletari, contro i Tokugawa decisi a sterminarli. E quando si uccise per non darla vinta ai nemici, morì due volte, nella carne e spiritualmente, commettendo peccato mortale.

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