Quelle bombe a Pechino per vendetta

Già nel mirino di Mao Zedong, per reagire alla repressione gli uiguri hanno sfidato i cinesi perfino in piazza Tienanmen

Quelle bombe a Pechino per vendetta

da Kashgar (Cina)

«Siamo soliti dire che la Cina è un grande Paese, esteso, ricco di risorse e sovrabbondante di popolazione. In realtà sono gli Han a essere in tanti, mentre le altre minoranze hanno territori vasti e ricchi di risorse naturali». Parole di Mao Zedong, che in un discorso del 25 aprile 1956 ha riassunto il nocciolo della questione aperta tra il governo di Pechino e lo Xinjiang. Estesa come l'intera Europa occidentale, la regione autonoma uigura dello Xinjiang, che in mandarino vuol dire Nuova Frontiera, costituisce assieme al Tibet il problema di politica interna più scottante per il Partito comunista cinese. Nelle lontane frontiere della Cina la nazionalità è un concetto nebuloso, dove il passaporto conta meno dell'appartenenza etnica. Così a partire dagli anni Novanta gli uiguri - turcofoni di lingua, musulmani di religione - si sono a più riprese ribellati violentemente contro il governo centrale, accusato di sopprimere l'identità della regione e di favorire la progressiva sinizzazione dello Xinjiang. Oggi dei 22 milioni di abitanti della più occidentale delle province cinesi solo la maggioranza relativa (il 46%) è uigura, mentre il 44% è oramai Han. Trent'anni fa era meno del 10%. La scoperta di ricchi giacimenti di gas e petrolio non distanti dal confine con il Kazakistan, l'apertura della ferrovia fino a Kashgar e della Karakorum highway, che ha accorciato i tempi di viaggio tra Islamabad e Kashgar da 35 a 5 giorni, hanno reso l'impervia regione del Nord Ovest sempre più strategica agli occhi di Pechino. Negli anni l'immigrazione degli Han è stata favorita con generosi sussidi economici e corsie preferenziali per entrare nell'amministrazione pubblica. L'economia è decisamente cresciuta, grazie alla creazione di impianti industriali in cui però vengono impiegati soprattutto Han. La scusa? I locali nella stragrande maggioranza non parlano cinese, per cui è impossibile assumerli. Così nella capitale Urumqi gli uiguri sono diventati minoranza. Lì come altrove i cinesi sono vissuti come una potenza occupante. Una potenza che impone una lingua estranea, tollera appena la religione (gli imam sono scelti da una commissione governativa) e impone un sistema politico alieno, costringendo i locali ad adeguarsi a tutte le stramberie di Pechino. Pur essendo a oltre tremila chilometri e due fusi di distanza, nello Xinjiang si adotta la stessa ora della capitale. Il che vuol dire che c'è ancora luce alle dieci di sera e alle otto del mattino è buio pesto. Dettagli, certo. Ma dettagli che hanno portato una parte della popolazione a fiancheggiare gruppi estremisti che rivendicano l'indipendenza per quello che storicamente hanno sempre chiamano Turkestan orientale, che nel Novecento è stato indipendente per due brevi periodi tra il 1930 e il 1949. Da qualche anno gruppi come il Movimento islamico del Turkestan orientale e l'Organizzazione di liberazione del Turkestan orientale hanno alzato il tiro con ripetuti attacchi contro la popolazione di etnia han, i poliziotti e gli edifici governativi. E tra il 2013 e il 2014 hanno esportato la loro strategia terroristica fuori della regione. Prima a Pechino, con un attacco suicida in piazza Tienanmen e poi nelle stazione di Kunming, Canton e Urumqi, dove gli attacchi all'arma bianca hanno provocato quasi 30 morti e 200 feriti. Da allora la stretta di Pechino sugli uiguri si è fatta ancora più dura. Nelle strade si sono moltiplicati i posti di blocco e la presenza di militari, per entrare nelle città bisogna passare un check point dove gli uiguri vengono fotografati e schedati.

Il governo è riuscito a far inserire le organizzazioni autonomiste uigure nell'elenco dei gruppi terroristici internazionali stilato dagli Stati Uniti, avendo così mano libera nell'opera di repressione. Aveva ragione Mao: «La Cina è un grande Paese», dove le minoranze hanno qualche problema.

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