Quell'uomo sono "Io?". La guerra uccide l'identità

Un reduce dalla battaglia di Verdun s'impossessa della vita di un altro. O è soltanto convinto di farlo...

Quell'uomo sono "Io?". La guerra uccide l'identità
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«L'attimo non lo cogli mai per intero». Una frase, graffiante, isolata, letta nelle prime pagine di questo libro, accompagna la lettura, la orienta come una verità non seppellibile dalla marea delle congetture. Il libro, edito da Adeplhi (pagg. 150, euro 18) nella sua prima traduzione, ritorna alla luce dopo molti decenni di dimenticanza. Fu pubblicato in Germania 98 anni fa, l'autore è Peter Flamm (pseudonimo di Erich Mosse, psichiatra), e il titolo non potrebbe essere più chiaro: Io? in tedesco: Ich?.

Un uomo, scampato non si sa come dalla battaglia di Verdun, forse la più sanguinosa di tutta la Storia, si impossessa del passaporto di un morto, ne assume l'identità, o forse è così che lui pensa, o forse sta solo sognando. L'uomo torna a Berlino, giunge a una casa, una bellissima donna innamorata lo attende affacciata alla finestra. Si profila da principio una quasi-storia familiare, con una moglie, un bambino in una culla e una vecchia che lui chiama mamma. La donna lo riconosce, ma lui non si riconosce. Due storie passate s'incrociano in lui: quella di un medico fedifrago e colpevole, con la propria negligenza, della morte di una persona; e quella dello stesso medico, che salva una ragazza costretta, dopo la morte del fratello, a prostituirsi per tenere in vita sé e la madre, e rea di avere ucciso il suo primo cliente.

La malattia di quest'uomo tocca i confini dell'io. L'io esiste? Perché lui ama così teneramente questa donna, Grete, e al tempo stesso sente di essere il fratello morto di una ragazzina divenuta prostituta per necessità e assassina per dignità? Che storia è questa? È una storia?

Il romanzo non è bello, non è Remarque, non è Comisso e men che meno Céline: la scrittura è caotica, ci vorrebbe una grande sapienza narrativa - e tantissima pazienza - per trarre da una vicenda così complessa un vero grande romanzo, per trascinare il lettore dentro un libro come questo, ma Flamm/Mosse non sembra avere tempo, lo scrittore è subissato dallo psichiatra, troppi pazienti affetti da shell-shock (nevrosi da esplosione) gli ripetono questa stessa storia o non-storia e allora via, frase dopo frase, virgola dopo virgola, senza logica, senza orizzonte, senza punti cardinali.

Per il lettore non ci sono vere porte d'ingresso: deve inseguire, di corsa, sempre un passo indietro. Ma non è colpa dello scrittore. È la Guerra, è il suo mistero doloroso, il suo rosario strappato e disperso in mezzo ai morti tedeschi, ai morti francesi, ai morti nudi, senza patria, che nessuno aspetta più. La Guerra non produce uomini, non produce coscienza, personalità, ma solo gas, e un'illusione da protrarre il più a lungo possibile.

Cosa può generare un «io» così forte da reggere lo schianto di una guerra planetaria, che lacera e smembra tutti i corpi, dai nostri poveri corpi umani al corpo di una società, ai suoi valori vitali? Impegnato notte e giorno a rappezzare menti massacrate dalla Guerra, Flamm/Mosse non può rispondere - perché può accadere che non ci sia più tempo per rispondere alle domande più importanti. Ma forse due cose si salvano dal disastro.

La prima è la natura, la cui distruzione fa comunque orrore (segno che è rimasta dentro di noi), e che in questa selva di simboli orfani che è il libro, è rappresentata da un cane di nome Nerone, presente dall'inizio alla fine, e che dà sempre l'impressione di sapere cose che gli uomini non sanno più. La seconda è la nostalgia. Se l'io è ormai solo un'illusione, rimane - stranamente - la sua nostalgia. «Anch'io vorrei essere disteso da qualche parte, qualcuno piange accanto a me e s'inginocchia davanti al mio letto» scrive Flamm, e questa è la speranza che ciascuno di noi ha di essere qualcuno, proprio quel qualcuno, ma - aggiunge - «un estraneo sta a pochi passi e dice: è triste quando qualcuno muore, ma toccherà a tutti noi».

Sarebbe bello se ciascuno di noi fosse così unico, così irripetibile da spingere l'universo a nascere e morire con lui, allora sì la nostra vita sarebbe sacra; ma c'è sempre un estraneo, uno sconosciuto che ci ricorda che tutto è numero e statistica. Già: può un uomo, con tutte le sue forze, cogliere per intero anche un solo istante della sua vita? Numero e statistica sono il prodotto della Guerra.

La distruzione non produce un grammo di speranza. A meno che un Dio ostinato, magari in veste da mendicante, non la faccia rinascere dalla terra. Come quella carota che Liliana Segre, scampata da Auschwitz, portò alla bocca dopo giorni e giorni di digiuno.

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