![Se l'amore diventa ossessione](https://img.ilgcdn.com/sites/default/files/styles/xl/public/foto/2025/02/11/1739260913-teatro-buzzati.jpg?_=1739260913)
C'è qualcosa che accomuna Buzzati a Svevo, non tanto le tematiche, quanto il fatto che, essendo entrambi autori di teatro, hanno avuto fama e fortuna grazie alla riduzione, per il teatro e il cinema, delle loro opere narrative. Non per nulla, come drammaturgo, Svevo è stato scoperto dopo il successo di «La coscienza di Zeno» e di «Senilità», mentre, Buzzati, come drammaturgo, poteva vantare, almeno, due successi, quello di «Un caso clinico» (1953), messo in scena al Piccolo Teatro, con la regia di Giorgio Strehler, ripreso nel '58 dallo Stabile di Torino, e quello di «L'Orologio», (1959), con Paola Borboni.
La notorietà di Buzzati avviene, però, grazie alla trasposizione cinematografica di «Il deserto dei Tartari» (1976) con la regia di Zurlini e un cast stellare, e di «Un amore», (1965), regia di Gianni Vernuccio, con Rossano Brazzi e Agnès Spaak che non aveva potuto vantare lo stesso successo. Per completezza, ricordo la riduzione teatrale di Tullio Kezich, per Giulio Bosetti che curò la regia insieme a Giuseppe Emiliani. Kezich aveva ridotto, in precedenza, «La coscienza di Zeno» di cui Bosetti era stato interprete, dopo l'edizione di Squarzina, con Alberto Lionello, tanto da fare un parallelo, tra due inetti, come Zeno e Antonio Dorigo, protagonista di «Un amore» (1963) in scena, al Franco Parenti, da oggi al 16 febbraio, nella versione di Paolo Briguglia, con la regia di Alessandra Pizzi che, insieme, hanno scelto di entrare nella mente di Dorigo, per esplorare tutti quei meccanismi psicologici che diventano causa di una vera e propria ossessione e che trasformano il sentimento d'amore in una malattia.
Siamo nella Milano degli anni Sessanta, una città che sta vivendo il boom economico, che va sempre più popolandosi di immigrati che arrivano dal Sud che arricchiscono, con la loro povertà, la classe popolare meneghina, mal sopportata dalla classe borghese, a cui appartiene Dorigo, un architetto di mezza età, alquanto annoiato dalla vita, proprio come certi personaggi di Moravia. Egli non ha un buon rapporto con le donne infatti, quando crede di trovare quella giusta, alla fine, la ritiene una «estranea». Per dare un senso ai suoi rapporti carnali, decide di frequentare la casa d'appuntamento della signora Ermelina che, come tante altre, procacciava delle giovanissime ragazze che si prostituivano, per soldi, visto che erano in tanti i professionisti agiati e gli imprenditori che avevano favorito un tale mercato. Era evidente, nelle loro scelte, uno spirito, magari non del tutto consapevole, di pedofilia, essendo le ragazze, delle minorenni. Accadeva che alcuni imprenditori finivano per sposarle e che, altri, come Dorigo, se ne innamorassero, credendo di sopperire al loro stato di solitudine.
Accade così che Dorigo, come Humbert di «Lolita» (1955), altro grande successo cinematografico, ma anche teatrale, con la regia di Luca Ronconi, vivesse dentro di sé, il connubio tra innocenza e perversità, tipiche delle inquietudini degli anni Sessanta, fatte di amori destinati a perdersi nei labirinti della menzogna, generati da ragazze come Lolita, Laide o la «Bambolona» (1967) della De Cespedes, ma che non lo sono, perché cercano ben altro, offrendo, il loro corpo, con una certa inconsapevolezza, con la quale trasformano l'amore degli altri in morbosità, quella a cui hanno puntato sia Alessandra Pizzi sia Paolo Briguglia, un rapporto equivoco, capace di trasformare l'amore in una forma di possesso. La scelta, alla fine, è stata quella del monologo interiore.
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