Letteratura

La seduta dello psicologo Montanelli con il fallito "Buonuomo Mussolini"

Forse non è l'Indro Montanelli invecchiato meglio, né quello di cui si sentiva il bisogno, ma Il buonuomo Mussolini è comunque un recupero interessante

La seduta dello psicologo Montanelli con il fallito "Buonuomo Mussolini"

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Forse non è l'Indro Montanelli invecchiato meglio, né quello di cui si sentiva il bisogno, ma Il buonuomo Mussolini è comunque un recupero interessante. È un «libello» satirico del 1947 che richiama, nel titolo, un classico di Curzio Malaparte: Il buonuomo Lenin (1932). Montanelli immagina di ricevere dalle mani di un prete il testamento di Mussolini, sfuggito ai partigiani durante l'arresto. Ovviamente è un falso, condotto sul filo dell'ironia e del paradosso da Indro. Il problema è la prima parte del libro che risente del tempo in cui è stato scritto. Si respira già aria di revisionismo, il che spiega la pubblicazione stessa e il titolo al netto dell'ironia. Questo revisionismo strisciante era evidente nei rotocalchi. Benito si è fatto Duce per assecondare il popolo e condurre, almeno negli intenti, una politica giolittiana. Se Mussolini è colpevole, è colpevole il popolo italiano. Tutto sommato, il Re era l'unico ad essere sinceramente democratico e pronto a difendere lo Statuto. Parlamento e grande borghesia avevano voglia di dittatura, e l'hanno ottenuta. Mussolini poi ha pensato di schierarsi con Adolf Hitler per aiutarlo a... perdere. Infatti questa mossa avrebbe garantito il nostro ingresso nella sfera d'influenza anglosassone. In caso di vittoria tedesca, invece, saremmo diventati il villaggio vacanze dei nazisti. Montanelli si fa psicologo nel ripercorrere la biografia di Mussolini. Benito è un piccolo borghese pieno di complessi di inferiorità. Ha studiato abbastanza per capire la sua inadeguatezza di fronte a intellettuali come Filippo Turati. Il rancore è la forza propulsiva di Benito. Hitler invece era un autentico animale politico: la sua ignoranza lo rendeva immune dal dubbio e gli forniva quella convinzione necessaria per tenere in pugno il pubblico nelle adunate.

La conclusione è amara: «Gli italiani non sono stanchi di osannarmi perché vogliono crocifiggermi.

Sono stanchi di osannarmi perché vogliono osannare qualche altro».

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