Giorgio Manzi, professore di Antropologia alla Sapienza di Roma, si è occupato a lungo di «come eravamo». Per esempio nei saggi Il grande racconto dell'evoluzione umana, L'ultimo Neanderthal racconta e il recente Antenati (tutti editi da Il Mulino): in quest'ultimo prende spunto dal fatto che nel novembre di cinquanta anni fa venne scoperta l'icona dell'archeologia contemporanea, lo scheletro di un australopiteco di sesso femminile... E così ci conduce attraverso la storia di «Lucy e altri racconti dal tempo profondo» che ci parlano di noi, del nostro presente e anche oltre.
Professor Manzi, l'archeologia è sempre meno scoperta del «reperto» e sempre più indagine sull'uomo a tutto tondo?
«Sì. Lo studio della preistoria e del nostro passato remoto si arricchisce di varie fonti di informazione. Fondamentali sono quelle basate sui resti fossili: ossa, denti e materiali scheletrici a volte sparpagliati nello spazio e nel tempo, che ci raccontano chi fossero, quali caratteristiche avessero e come vivessero i nostri antenati e, quindi, chi siamo, quale sia il nostro posto nella Natura e come possiamo prepararci al futuro».
Cosa ci dicono questi resti?
«Ci descrivono le caratteristiche delle forme umane e preumane, lungo un percorso evolutivo che ci ha portato da forme più scimmiesche ad altre più simili a noi. E questo percorso non è né semplice, né lineare: in milioni di anni vediamo il diversificarsi di tante creature, che ha portato alla comparsa della nostra specie e alla sua variabilità».
Che tipo di percorso è?
«Non è un susseguirsi di una specie all'altra: quello dell'evoluzione umana è piuttosto un cespuglio, in cui ci sono anche tante specie che esistono fianco a fianco nello stesso momento. È successo più volte che esistesse più di una specie umana, differenziata negli spazi geografici. È una storia frastagliata».
Che cos'altro ci dice?
«Abbiamo capito come le nostre varie caratteristiche si affaccino lungo il percorso: non siamo diventati umani all'improvviso... Per esempio c'era un'epoca in cui i nostri antenati erano bipedi ma avevano caratteristiche diverse da quelle poi sviluppatesi, per esempio un cervello più piccolo. Prima abbiamo cambiato la corporatura, poi si è sviluppato il cervello di grosse dimensioni che ci caratterizza, soprattutto a partire dalla presenza di varie specie del genere Homo: una fase che è durata almeno due milioni di anni».
Il clou?
«La comparsa di Homo sapiens, che ha prevalso, nonostante in quel momento esistessero anche altre specie con un cervello di grandi dimensioni. A questo punto prende avvio un altro percorso, lungo decine di millenni, in cui la forma umana si diversifica, adattandosi ad ambienti diversi e costituendo così la biodiversità della nostra specie; anche se ciascuno di noi è un insieme di melting pot genetici avvenuti nel tempo».
Quindi la diversità...?
«L'antropologia del passato ci ha lasciato l'idea che l'umanità possa essere frazionata in razze ma, pur nella variabilità evidente, non c'è alcuna suddivisione discontinua: questa variabilità fluisce da una popolazione all'altra in modo graduale».
Lucy è un'icona: che cosa ci dice delle nostre origini?
«Una creatura vissuta 3,2 milioni di anni fa, bipede, ma senza altre caratteristiche umane: una scimmia antropomorfa bipede. Un antenato remoto. E poi nel libro racconto anche di alcuni fossili importanti, scoperti in Italia, come l'uomo di Ceprano».
Di che si tratta?
«Un cranio, frammentario, sul quale le ricerche proseguono dal 1994. Abbiamo capito che è la rappresentazione di un'umanità estinta, che chiamiamo Homo heidelbergensis e che probabilmente è uno degli ultimi antenati comuni a varie specie umane, fra cui noi, e anche i Neanderthal, prima che le storie evolutive divergessero. Il che lo rende molto interessante: ci dice molte cose dei primi abitanti dell'Europa».
Di che epoca parliamo?
«Circa 500mila anni fa. Abbiamo ricostruito le modalità di vita di allora: le popolazioni vivevano frazionate in bande, in piccoli gruppi di cacciatori-raccoglitori, sparsi sul territorio perché, per procurarsi il cibo, vegetale o animale, necessitavano di spazi ampi. Questi piccoli gruppi si spostavano molto per sfruttare il territorio e avevano degli strumenti in pietra. Trovavano riparo alle imboccature delle grotte o in altri luoghi, a seconda delle stagioni e conoscevano l'uso del fuoco, ma non da molto».
E invece che cosa sappiamo della spiritualità di questi uomini, come quella attestata dalla scoperta della Sciamana di cui raccontiamo in queste pagine?
«Homo sapiens è l'unica specie a manifestare chiare attitudini spirituali. All'epoca dell'uomo di Ceprano non esisteva niente di paragonabile. Si discute da centocinquant'anni se i Neanderthal seppellissero i morti... Se avevano forme di spiritualità, erano modeste. Homo sapiens invece mostra questa attitudine al pensiero simbolico e autoconsapevole, a un linguaggio articolato, a visioni religiose e interpretazioni della realtà, anche magiche. La Sciamana è alla fine di questa storia, nel Mesolitico».
Quanto è importante l'intreccio con altre discipline nel raccontare questa «storia dell'uomo»?
«La paleoantropologia, come scienza, di per sé è interdisciplinare e di sintesi. Si avvale di competenze di esperti diversi: i fisici, i chimici per ottenere datazioni precise, i geologi per studiare gli strati in cui sono depositati i resti, i paleoecologi per ricostruire i contesti ambientali.
Noi stessi antropologi studiamo i resti con tecniche sempre più sofisticate di analisi. Infine, fondamentale, c'è lo studio del Dna, che può essere estratto dai resti fossili e che è fondamentale per decifrare le forme umane del passato».
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