"La Sindrome di Ræbenson" è un virus tutto mentale

Il romanzo di Giuseppe Quaranta

"La Sindrome di Ræbenson" è un virus tutto mentale
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Sono passati trent'anni dalla sera in cui lo psichiatra Antonio Deltito, durante una cena su una terrazza romana, manifestò per la prima volta un'amnesia di tipo anomalo - «Sono forse soggetto a piccole assenze nell'infinito?» - per poi svenire sul pianerottolo. Attribuita a una generica infiammazione cerebrale, la malattia è riconducibile in realtà alla Sindrome di Ræbenson (Edizioni Atlantide, pagg. 288, euro 18). Anche l'autore, Giuseppe Quaranta, è psichiatra; al pari del narratore, il quale spende l'intera esistenza nel tentativo di decifrare la patologia di Deltito, suo amico dai tempi dell'università. Consistente in una costellazione di sintomi che vanno dall'attacco epilettico al deliquio, la sindrome (immaginaria, a scanso di equivoci) passa di padre in figlio ed è riconoscibile, fra l'altro, dalla forma turrita del cranio, dal diversi colori dell'occhio destro e sinistro e soprattutto dal singolare rapporto del paziente con la morte.

Meglio dirlo subito: i ræbensoniani escono dalla vita senza morire, semplicemente assentandosi ed entrando nel corpo di un altro. Come il poeta Flatman nelle Confessioni di un oppiomane inglese di Thomas de Quincey: «fu preso dal tarlo che alcune persone sdegnassero la morte e uscissero di scena con una semplice scomparsa». Metempsicosi facilitata da un'altra specialità dei malati: quella di dislocare i ricordi fra le menti e dunque di negare l'individualità della coscienza.

Ragguardevole è la lista degli scrittori che il critico potrebbe evocare per tenere a bada lo sconcerto generato dal notevolissimo esordio di Quaranta: se la presenza di immagini e la temperatura glaciale della Sindrome di Ræbenson fa pensare a Sebald, la struttura a incastri dell'inchiesta conduce a Poe e, da lì, a L'Arrêt de mort di Blanchot; Proust domina intere pagine, visto che il tema del romanzo è, in senso lato, la memoria; e magari sarà opportuno ricordare che il padre del surrealismo, Breton, era psichiatra.

Quel che è doveroso sottolineare, per scongiurare il pericolo di rinchiudere l'autore nella gabbia degli illeggibili per iperdeterminazione, è il travolgente talento affabulatorio di Quaranta; la capacità che possiede di mesmerizzare il lettore e che solo in parte è riconducibile al fascino che emana il tema del memi di cui i ræbens, i ricordi removibili dei suoi malati, rappresentano una molto conturbante e libera variazione.

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