Diseducazione sentimentale lungo le strade d'America

Tradotto il romanzo «L'ultima corvè» di Ponicsan sulle contraddizioni dell'America anni '70

Quando si pensa a L'ultima corvè alla mente non può che venire l'immagine di Jack Nicholson con il cappellino bianco, la divisa da marinaio e quello sguardo e quel sorriso beffardo e quasi diabolico che ritroveremo in tutti i suoi film. L'ultima corvè appartiene alla storia del cinema non solo americano e per molti è ancora, insieme a Easy Rider, una delle pellicole simbolo della controcultura degli Settanta. Il film - titolo originale: The Last Detail, regia di Hal Ashby - fu girato nel 1973 ed è tratto dall'omonimo romanzo di Darryl Ponicsan, scrittore e sceneggiatore che nel 1970 inventò la storia di due marinai costretti a fare da corvè, da scorta, a un giovane condannato a otto anni per aver rubato 40 dollari dalla cassetta delle offerte durante una cerimonia di beneficenza organizzata dalla moglie di un ufficiale. La condanna è inflessibile e quando i due marinai che devono scortarlo dalla base navale di Norfolk, Virginia, alla prigione della Marina a Portsmouth, New Hampshire, dopo pochi chilometri dei mille che devono affrontare si rendono conto di come il diciottenne Meadows in realtà sia un cleptomane che non si era reso conto del furto.

I due «chaser», come sono chiamati i marinai che scortano un compagno di armi, sono Billy Badass Buddusky e Mule Muhall: Buddusky è badass (nel gergo della Marina sta a indicare un osso duro) mentre Mule è un nero che durante quegli anni - il romanzo pubblicato nel 1970 è ambientato durante la Guerra del Vietnam - non ha vita facile in un'America dove il segregazionismo si respira ancora a ogni latitudine. Se all'inizio del libro i due prendono alla lettera la consegna del prigioniero, comportandosi come poliziotti, durante il viaggio conoscono meglio il ragazzo e decidono, in quei cinque giorni di viaggio tra continui cambi di treni e autobus, di fargli conoscere la vita prima del carcere. Inizia così un mirabolante viaggio on the road tra la provincia e le metropoli degli States che condurrà i tre fra scazzottate, prostitute, sbronze colossali in bar di pessima categoria: sono questi gli insegnamenti che i due marinai pensano facciano diventare uomo il ragazzo: una sorta di «diseducazione sentimentale», con anche una tappa non prevista per far salutare al ragazzo la madre. Una madre che vive «in una casa senza speranze e che odora di estranei»: una volta morto il marito, ha relazioni fugaci ed ha un rapporto particolare con un vicino di casa.

Perché l'America descritta ne L'ultima corvè è una America diventata «la cattedrale di una religione che si è dimostrata falsa» e nelle pagine si respira tutta la disillusione di una nazione reduce non tanto dalle guerre ma dai sogni infranti di JFK. Il romanzo è ambientato nella Marina, dove l'autore trascorse diversi anni: non vuole essere un attacco all'esercito ma attraverso l'esercito raccontare l'America che in quegli anni Settanta era presa letteralmente tra due fuochi: da una parte la nazione puritana e conservatrice e dall'altra la controcultura con quella libertà che non riuscì mai a trasformarsi in un liberalismo razionale. Entrambe quelle americhe oggi sono scomparse: ne è nato uno strano ibrido di permissione che Darryl Ponicsan è riuscito perfettamente a descrivere e che rende questo romanzo modernissimo.

L'ultima corvè - tradotto oggi per la prima volta in Italia da Gianluca Testani per la casa editrice Jimenez (pagg. 136, euro 18) - si basa per la maggior parte su dialoghi che rendono la lettura un capogiro di invenzioni narrative. È attraverso i dialoghi serrati, non privi di un gergo marinaresco scurrile, che l'autore riesce a raccontarci la storia quasi in presa diretta. Ed è questo uno dei punti di forza del libro, oltre a non essere caduto nella trappola antimilitarista che oggi lo avrebbe reso datato.

Darryl Ponicsan ha avuto l'intuito di usare la parlata dei marinai (come un moderno Jean Genet avrebbe usato l'argot) per descrivere atmosfere, luoghi, situazioni di uomini che lontano dal mare, lontano dalle loro navi, sembrano persi in un'America che fa il saluto militare e al contempo li detesta quando li incontra come se fosse la propria cattiva coscienza.

I marinai rispondono a proprio modo: con una rabbia che, però, resta sterile perché la loro anarchia in fondo è provvisoria: soltanto nei ranghi c'è la salvezza. E i loro pensieri si dissolveranno in un «Signorsì» e in un'utopia da ricordare: «Uno di questi giorni la gente dovrà smettere di fare il proprio lavoro e cominciare a pensare alla propria vita.

Nessuno sa quanto gli resta da vivere. Che senso ha passare una vita intera da coglione solo perché stai facendo il tuo schifo di lavoro? Alla fine muori e il tuo lavoro lo fa qualcun altro e la tua vita l'hai sprecata».

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