Come noto, l'origine dell'italiano classico è latina. Classis era la flotta navale o l'esercito, lo scrive anche Virgilio nell'Eneide (Hortinae classes, le truppe di Orte); era poi il ceto di appartenenza dei cittadini, e si scendeva dal primo all'ultimo. Lo testimonia Cicerone con lo snobismo del provinciale che ha scalato la gerarchia: «quintae classis», di infimo rango. Classicus è quanto pertiene alla prima classe dei cittadini, che identifichiamo facilmente con le famiglie di rango senatorio. Fin qui la cosa è noiosa, c'è da convenirne, e tuttavia utile per ripassare l'ovvio. Ossia che sono poche le parole italiane non latine, a testimonianza di quanto sia criminale penalizzare questo retaggio, e i due signori citati sopra sono esponenti della letteratura che definiamo in senso stretto «classica». Virgilio e Cicerone insieme a Tacito, Varrone, Seneca e Orazio, tra gli altri, ma la lista si allunga e si amplia. Di cosa siano i classici e di quanto contino ancora per noi trattano due libri pubblicati da Edizioni Ares, Come il latino ti salva la vita di Silvia Stucchi (pagg. 310, euro 14,80) e Ritorno ai classici. Una conversazione con Giampiero Neri di Alessandro Rivali (pagg. 160, euro 14,90). Ci sono capolavori che non finiscono mai di insegnarci a vivere e a pensare. E poi gli antichi in fondo non erano poi così diversi da noi. È un po' questo il sunto del testo della Zucchi, in cui si parla anche delle difficoltà della scuola, che a forza di includere ha finito per escludere il meglio, in particolare dai programmi. Qui il raggio è circoscritto alla letteratura latina, dunque incontriamo gli autori che abbiamo tradotto sui banchi di scuola, ma interessante è anche il paragone con una civiltà senza dubbio diversa da quella italiana, che tuttavia ha qualcosa in comune con la nostra e si poneva domande tuttora attuali. Per esempio, erano già di attualità i problemi di famiglia, come rappresenta Terenzio negli Adelphoe, e l'ossessione per la bellezza. Le donne romane si facevano belle con cosmetici avanzati, e se i bagni nel latte d'asina di Poppea sono celebri, poco si sa delle misture che le matrone utilizzavano nella loro lotta contro il tempo, anche se Ovidio dispensa qualche consiglio in un'opera mirata, i Medicamina faciei femineae, ossia i Cosmetici femminili, ovviamente meno nota dei suoi capolavori. C'è molto altro ancora in questo libro scritto con garbo, in cui la critica della latinista al «fallimento educativo», cui è dedicato un capitolo, si alterna a saggi di costume sulla vita quotidiana degli antichi dal piglio sottilmente ironico.
Toccante è il libro-intervista di Rivali a Giampiero Neri, «decano e maestro in ombra della poesia italiana», fratello dello scomparso Giuseppe Pontiggia. La conversazione tra poeti dilata il termine «classico» fino a comprendere il Novecento, perché di tale aggettivo può fregiarsi qualsiasi opera che travalichi le problematiche contingenti. Un romanzo o un poema sono classici anche se non sono greci o latini, purché sappiano suggerirci qualcosa, consolarci nei momenti difficili, rispondere alle nostre inquietudini. Pertanto classici sono Omero e Virgilio, ma anche Pasternak, Tolstoji, Melville e il nostro Malaparte.
Commovente il capitolo su Dante e i Vangeli, perché se per l'Alighieri nessuno potrà avanzare dubbi, intorno ai secondi ci sarebbe molto da obiettare, perché per i cristiani anziché un classico sono parola rivelata. Neri li definisce «una lettura infinita: non si finisce mai di leggere i Vangeli perché sono sempre nuovi, sempre attuali, presenti, eppure obliati dalla quotidianità, poi all'improvviso una citazione, un'immagine ce li riporta vivi davanti agli occhi». Il capitolo sul medioevo è il più sorprendente, per certi versi, visto il sospetto moderno aleggiante intorno ai secoli bui, che di oscuro forse hanno soprattutto l'incomprensione che incontrano. Semplicemente, per quegli uomini era essenziale ciò che per noi conta poco: la spiritualità, o meglio «la vocazione mistica». Pertanto per Neri anche i Fioretti di San Francesco sono un classico come ma questa non è una novità, date le innumerevoli traduzioni novecentesche che vanta il libro di Giobbe. La Bibbia è del resto anche la contemplazione del deserto, che è «il tema della solitudine dell'uomo di fronte a sé stesso», ma anche, viene da aggiungere, una dimensione in cui è immediata la speranza di un contatto con Dio.
Insomma, i libri che non passano mai di moda chiudono fuori dalla porta il frastuono, allontanano il quotidiano e ci precipitano nell'essenziale. Nel caso della Bibbia e dei Vangeli, volendo anche della Commedia, nell'eterno. Le pagine dedicate a Melville e al suo Moby Dick sono tante, infatti vi si sente forte il sostrato biblico. È l'evo moderno a riservare più sorprese, del resto proprio negli ultimi secoli «classici» sono diventati romanzi scritti in una babele di lingue, che tuttavia suggeriscono riflessioni profonde a chi è nato magari a Philadelphia, pur essendo stati scritti a Mosca o a Pietroburgo. I Racconti di Cechov sono senza dubbio un classico, ma anche l'Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters. I nomi sono tanti, si accavallano anche solo per una breve riflessione. E qui in Italia? Spunta un insospettabile Emilio Salgari per le fantasie dei lettori in erbe, Parini, Pascoli, tra gli altri; giganteggia Manzoni, forse mai compreso pienamente.
Per Neri e Rivali I Promessi Sposi è un unicum nel panorama della letteratura moderna, perché invece di alimentare inquietudini mestando nel dubbio e nell'angoscia, elargisce a piene mani speranza e redenzione. Lo si accosta a Risurrezione di Tolstoji. Forse perché la vita non dovrebbe essere un vano precipitarsi nelle cose ma cercarne il senso. Con buoni libri per bussola, altrimenti si capisce niente.
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