L'Apocalisse di Scibona al ritmo dei Beach Boys

Il nuovo romanzo dello scrittore americano è un'epopea fra Usa, Vietnam, spie e libertà

L'Apocalisse di Scibona al ritmo dei Beach Boys

Sono ancora una volta le macerie morali del «sogno americano» a essere al centro di un nuovo libro che, a differenza di tanti che hanno descritto il fallimento dell'American dream, riesce a piantare il coltello nel cuore di Stati che sembrano tutto tranne che Uniti. È ciò che fa Salvatore Scibona nel romanzo Il volontario, nelle librerie dal 29 agosto (66thand2nd, pagg. 448, euro 20; traduzione di Michele Martino).

Salvatore Scibona, nato nel 1975 a Cleveland, in Ohio, da una famiglia di origini siciliane, ha debuttato dieci anni fa con il romanzo La fine, grazie al quale è stato inserito nella lista dei «20 migliori scrittori under 40» stilata dal New Yorker ed è entrato nella shortlist del National Book Award. L'opera d'esordio, ambientata negli anni Cinquanta tra gli immigrati della comunità italoamericana di Cleveland, si colloca accanto a pietre miliari della letteratura statunitense del Novecento. Dopo dieci anni Scibona firma il suo secondo romanzo, Il volontario: un'epopea che, attraverso le vicissitudini di un reduce del Vietnam alla ricerca di una nuova vita, riesce a penetrare nelle ombre e nei fallimenti del sogno americano (presentazione domenica 8 settembre al Festival di Letteratura di Mantova; l'autore sarà in Italia anche a dicembre, a Più libri più liberi). E se La fine è una personale epica dell'immigrazione e della «nobiltà dei miserabili», questo secondo romanzo nasce dallo spunto del racconto The Kid scritto per il New Yorker proprio dieci anni fa: la storia di un ragazzino che si perde nel terminal di un aeroporto trovandosi straniero in terra straniera poiché parla solo un dialetto della Lettonia. Ed è proprio questo racconto che diventa il prologo del libro, ambientato dagli anni Sessanta ai giorni nostri sino a un ipotetico e vicino futuro del 2029.

Il romanzo si potrebbe sintetizzare in una frase di Scibona: «Ogni persona ha la sua storia, ed è molto più complicata della grande storia. La storia è una valigia in cui mettiamo gli individui per comodità, ma è sempre un errore dedurre un uomo dalla storia. Si può solo fare viceversa». Perché è romanzo che attraverso le avventure più disparate. Il protagonista attraversa l'inferno della guerra del Vietnam, poi vive da reduce nella Big Sur della California hippie, quindi è tentato di entrare in una «comune» gestita da un compagno di armi. Ma finisce arruolato «volontario» dai servizi segreti americani. Perché «il volontario» è più di un titolo: è la filosofia di una nazione e di un mondo di oggi dove tutti siamo arruolati senza poter dire no in una guerra di spie come nei conflitti con i vicini di casa o con noi stessi. Nessuno dice no: siamo tutti uomini che dicono di sì, spesso senza rendercene conto.

Il volontario potrebbe essere considerato un libro filosofico o sociologico se solo Scibona fosse caduto nella trappola, percorrendo una strada narrativa piuttosto sdrucciolevole e che rischiava di cadere nella retorica: Scibona è riuscito nel miracolo letterario di non perdersi nelle digressioni più noiose, grazie ad una scrittura che coniuga frasi fulminanti per la sintesi a descrizioni intrise di poesia.

Molti critici americani lo hanno paragonato al Don DeLillo di Underworld, ad oggi il capolavoro delilliano, ma se è indubbio che ci si siano molte affinità con altri scrittori pensiamo più a Thomas Pynchon, per la trama complessa che però nulla toglie alla scorrevolezza del romanzo.

Il protagonista è Elroy Heflin, un giovane militare che diventa «volontario» e si arruola nell'esercito per il Vietnam. Combatte a Khe Sanh, ma viene coinvolto in un'azione strategica segreta degli Usa in Cambogia. Diventa «volontario» per la seconda volta quando accetta di scomparire e rinascere sotto il falso nome di Dwight Elliot Tilly, e prestare servizio per una misteriosa agenzia di intelligence, la Ssa, in una missione nel Queens degli anni '70. Assisterà ad azioni ai limiti estremi della moralità, sospese tra la banalità del male e la difficoltà di essere veramente liberi e scegliere volontariamente il bene. Passerà una vita clandestina che lo riporterà a un indissolubile legame con i chiaroscuri morali dell'agenzia di intelligence per cui è stato strumento volontario, ma anche in un certo senso inerte, chiedendosi sino alla fine quanto possiamo veramente essere volontari e responsabili delle nostre azioni, quanto possiamo essere individui liberi.

Scibona sparisce come autore mentre il suo protagonista prende la scena dividendosi tra Germania, Afghanistan, Australia, Cambogia, Laos e Usa. Tenendo sempre in mente che «la chiave di tutto è non dimenticarsi mai di essere sempre inclini a tradire la fiducia di qualcuno: per amare davvero le persone bisognava studiare le cattiverie compiute a loro danno». Scibona è un maestro anche nel descrivere le città americane: «nel fitto del mondo. Tra i gas di scarico e la ruggine che si era scrostata dalle travi della sopraelevata, tappezzate di pubblicità scolorite di latte, di teglie smaltate per cucinare ciambelle, di chiavi per tutte le misure. Tra le pozze fuoriuscite dai cumuli di rifiuti, in cui sguazzavano le larve di zanzare, nello sgomento euforico dei clacson». È un maestro nel descrivere la provincia americana più profonda: «quando eri uno del posto ed eri rimasto lì invece di sparire quando ancora potevi, cioè prima di rimanere incastrato nella riproduzione della specie o di un lavoro decente di qualsiasi tipo, sempre che riuscivi a trovarlo, è come dire: non ho bisogno che accada niente. Mio fratello, mia madre, la macchina, i compagni di scuola, gli amici, le tresche, i figli allora, qual è il problema? Il crepuscolo». Il crepuscolo di quando niente cambia, immobile per anni, come se il tempo passasse soltanto alla televisione e non nella vita: «La tv, che lasci accesa nell'altra stanza per provare il piacere di sbirciare una finestra nel muro della vita più consapevole degli altri, perché le persone in tv dedicano più attenzione alle loro vite di quanta tu non ne devi dedicare a loro, e ti senti un Dio di questo sommo privilegio, tu che puoi decidere di ascoltarli mentre risolvono febbrilmente i loro delitti o di spegnerli, e perché quella musichetta familiare ti dice già dove tutto si svolge, e era triste o divertente o innocente o retrò o deprimente ai vecchi tempi quando la legna ardeva sotto la teiera e si andava a caccia di fagiani insieme al cane». Quando «il paese era ancora abbastanza giovane da inghiottire una vita intera o semplicemente implosa in se stessa, scartando il mutevole animale umano, a prescindere dal denaro che aveva».

Ed è poi negli scenari in Vietnam che Scibona raggiunge i propri vertici letterari: se le atmosfere possono ricordare l'Apocalypse Now di Francis Ford Coppola, c'è una scrittura lontana dalla Cavalcata delle Valchirie utilizzata nel film di Coppola, e che vibra tra i Beach Boys e Bach. Come quando descrive un bombardamento: «A volte, in lontananza, la terra e il cielo s'incendiavano di luce senza preavviso. Era notte, e per un lungo momento davanti a noi, diventava giorno pieno.

Non uno squarcio del cielo seguito da un lampo, come in una tempesta di fulmini, ma un mondo che si apriva e continuava ad aprirsi ancora dal basso, un mondo con un sole dentro che bruciava salendo dal terreno. Il mondo intero rifatto nuovo di luce delle tenebre. Una frazione di secondo di pace feroce prima che giungesse il suono. Un arco di luce. E poi il boato».

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